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    Il falcone maltese # 2: La nascita dell’industria culturale. Tra industria e mito Roberto Gelini Continua il piccolo viaggio di Mauro Trotta nella letteratura noir. La crime story che ci appassiona in tante serie tv di successo, ha origini nell‘800 dentro quel capitalismo industriale che sconvolge le principali città europee. Nasce proprio a Parigi e gli investigatori, cercando i colpevoli, raccontano la nuova società e tutte le sue crudeltà: il delitto è una forma di conflitto sociale e va al di là del bene e del male. In questa seconda puntata, Trotta spiega come dalla capacità di immaginare possibili scenari del primo detective della letteratura, Auguste Dupin, si passa a Sherlock Holmes. L’investigatore inglese sostituisce il virtuosismo dell’artista o dell’artigiano con il dominio della tecnica basata sulla scienza. Come Allan Poe che non contemplava repressione, Holmes ha una scarsa considerazione della polizia che fallisce in quanto troppo convenzionale La figura centrale all’interno del romanzo poliziesco diventa, fin da subito, quella dell’investigatore. È lui il protagonista, l’eroe, il soggetto che vive le vicende che lo porteranno alla risoluzione del caso, all’identificazione dell’assassino. E se il primo detective della storia del giallo è Auguste Dupin, quello che senza dubbio è arrivato ad incarnare questa figura diventando l’investigatore per antonomasia è Sherlock Holmes. Certo, la figura di Holmes appare molto più caratterizzata di quella di Dupin. Del resto, quest’ultimo è apparso soltanto in tre racconti, mentre l’inquilino del 221B di Baker Street, oltre ai quattro romanzi e 56 racconti scritti da Conan Doyle, è stato ed è protagonista di innumerevoli altri libri, romanzi, racconti, opere teatrali e cinematografiche, fumetti e videogiochi. Insomma si tratta di un’icona a livello planetario. In ogni caso, però, la creatura di Arthur Conan Doyle ha preso molto dal personaggio di Edgar Allan Poe: entrambi vivono con un coinquilino che è il narratore delle loro avventure, entrambi conducono un’esistenza abbastanza appartata e si mettono in moto soltanto quando decidono di occuparsi di un caso che, oltre tutto, deve colpirli, solleticare il loro interesse. Entrambi, poi, usano le proprie facoltà intellettive per arrivare alla soluzione dei delitti affrontati. Mentre, però, nel caso del detective francese sembra essere la fantasia, l’immaginazione – certo accoppiata all’analisi rigorosa – a consentire la soluzione delle inchieste, per Holmes tutto, invece, è legato all’utilizzo del metodo scientifico. È il ragionamento, la deduzione come la chiama Conan Doyle, l’analisi dei particolari indizi per arrivare al quadro generale (il ragionamento induttivo, insomma) a permettere di arrivare al quadro generale e scoprire la verità.  Cosa è successo? In pratica sono passati neanche 50 anni tra l’esordio di Dupin e il debutto di Holmes in Uno studio in rosso del 1887. Sono avvenuti cambiamenti epocali, di cui questa piccola, a prima vista trascurabile differenza nella concezione del lavoro di indagine del detective è una spia significativa. L’avvento, soprattutto in Inghilterra, del sistema industriale modifica tutto. Nasce l’industria culturale. La cultura di massa si afferma costruendo le proprie regole, i propri modi di funzionamento. Al virtuosismo dell’artista o dell’artigiano si va sostituendo il dominio della tecnica basata sulla scienza. Ma, anche se si vanno affermando nuovi modelli culturali ed artistici, nascono nuove forme di comunicazione e di intrattenimento, si va costruendo un nuovo immaginario collettivo, parallelamente la vecchia talpa, per dirla con Marx, continua a scavare. Sotto la superficie si muovono elementi di resistenza ai nuovi rapporti capitalistici, emergono segnali di contrasto e di lotta alla nuova realtà che va affermandosi. Insomma, la fantasia non è al potere, ma comunque gioca le sue carte all’interno del conflitto politico e culturale che è in atto e va sempre più affermandosi. La figura di Sherlock Holmes gode fin da subito di un immediato e travolgente successo. La sua ascesa, all’interno dell’immaginario collettivo, può essere considerata quasi una perfetta rappresentazione della nascita dell’industria culturale. Vengono, infatti, stabiliti una serie di elementi fondanti della nascente fabbrica dell’entertainment, oltre a sancire l’importanza del genere poliziesco all’interno di tale sistema. Un sistema che vede la partecipazione di tutti i differenti canali di comunicazione: dalla letteratura al teatro, poi al cinema, alla radio, alla televisione, al fumetto, ai videogames. E Holmes sarà presente in tutti questi media. Anzi, alcuni degli elementi che più caratterizzano il detective di Baker Street non vengono dai libri. Così l’espressione «elementare, Watson», la caratteristica pipa ricurva o il cappellino da cacciatore, il deerstalker, nascono a teatro e vengono ripresi nelle illustrazioni e al cinema. Fondamentale, poi, è l’utilizzo della serialità, ovvero la produzione di una serie di opere, potenzialmente infinita, con la presenza del protagonista. Ma anche con la riproduzione di una serie di elementi, sempre gli stessi, come la coppia Holmes Watson, il delitto, il metodo di indagine e ben presto anche l’avvento di un arcinemico, il professor Moriarty, che instaura una nuova coppia con Holmes, e così via. Elementi, questi, che garantiscono al fruitore il piacere dato dalla ripetizione di forme conosciute, rassicuranti, all’interno di un quadro caratterizzato dal nuovo, dall’inaspettato, ovvero dal crimine e dall’esistenza di un colpevole. Ma la serialità è anche espressione del nuovo quadro socio-economico caratterizzato dall’avvento dell’industria. Non a caso la produzione industriale è seriale, si producono in serie merci che creano un proprio pubblico. Ed il rapporto di Holmes con il suo pubblico è un altro elemento fondamentale. La gente si scopre legata al brand – diremmo oggi – Sherlock Holmes. Tanto che quando il suo creatore decide di farlo morire in un ultimo scontro con Moriarty, il pubblico si ribella e Conan Doyle è costretto a resuscitare la propria creatura. Allora il personaggio diventa mito, mito d’oggi. Del resto lo star system hollywoodiano, che tra un po’ vedrà la luce, si muoverà sempre tra l’industria e il mito. E l’espressione «industria culturale» non vede forse insieme le parole industria e cultura? Siamo forse agli albori del tentativo da parte del capitale di mettere al lavoro non solo i corpi, ma anche le menti? Insomma, prime prove del frammento marxiano sul general intellect? Intanto, però, elementi di resistenza sono rintracciabili nella figura del grande detective. L’uso della cocaina, ad esempio. Certo all’epoca non era vietata, però… Oppure l’avere come alleati i cosiddetti Irregolari di Baker Street, di sicuro non buoni borghesi. Il rapporto conflittuale con il fratello Mycroft, legato al governo Britannico. E, ancora una volta, come nel caso del Dupin di Poe, la scarsa considerazione della polizia – espressione dell’ordine costituito – incarnata soprattutto dall’ispettore Lestrade, che fallisce proprio perché, come afferma lo stesso Holmes, è «convenzionale, terribilmente convenzionale». Mauro Trotta ha lavorato per vent’anni nel campo della comunicazione e dell’editoria. Ha partecipato insieme a Sergio Bianchi alla fondazione della rivista «DeriveApprodi». Da oltre vent’anni collabora alla pagina culturale de «il manifesto». Dal 2005 insegna materie letterarie nei licei e negli istituti letterari. Ha partecipato, curato e pubblicato libri sulla pubblicità, sui movimenti e sugli anni settanta.

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    Muri matti Sabato 8 febbraio a Milano, prima alla libreria Scamamù e poi al Cso Torchiera di Milano, si sono tenute le presentazioni dell’ultimo libro di Wu Ming 1 “Gli uomini  pesce”  con l’autore e con letture di Marco Manfredi. Di seguito riportiamo la rielaborazione degli interventi di Giuliano Spagnul e Sara Molho di Collettiva Interzona. Giuliano Spagnul Gli uomini pesce  di Wu Ming 1 (ma anche Ufo 78 del collettivo), segna una tappa secondo me molto importante. Segna un avanzamento del lavoro sull’immaginario, sull’immaginazione e sulla capacità, o meno, che abbiamo ancora di immaginare. Insomma, come scriveva Luciano Parinetto nel 1990 in Alchimia e utopia (libro introduttivo a quel Faust e Marx che Wu Ming 1 cita con enfasi): stiamo parlando di quella pratica immaginativa, di quell’«immaginario che un tempo fece da mediazione fra il regno dell’astrazione e quello delle sensazioni e di cui oggi la maggior parte della gente è irrimediabilmente castrata» [1]. Un’immaginazione che è, e non può essere altrimenti, incarnata, che ha a che fare con il corpo, il corpo da cui non si può non partire e a cui non si può non tornare: «È vero, il nostro rapporto col corpo è anche una costruzione culturale, un castello che abbiamo tirato su un piano dopo l’altro, e arredato sala per sala, in secoli e millenni. Ma la costruzione ha delle  fondamenta . E le fondamenta sono il corpo. Al corpo si torna sempre» [2]. Possiamo qui aggiungere quanto scriveva Antonio Caronia riguardo l’attrito tra il nostro cervello ancora sostanzialmente di un passato lontano (ricordo a proposito l’uomo antiquato di Gunther Anders) e il mondo che si trova oggi a dover affrontare: un’evoluzione tecnoscientifica che marcia a una velocità esponenziale, a cui non riusciamo ad adeguarci col tempo che gli sarebbe indispensabile: «Solo un nuovo ancoraggio alla materia e al corpo potrebbe costruire un antidoto efficace all’estremo spaesamento e al nostro naufragare in un tempo sempre più microbico e parcellare» [3]. Allora ritorno al corpo per Wu Ming e per Antonio Caronia come fondamenta, come ancoraggio, come antidoto. Ma antidoto a cosa? La storia degli uomini pesce si svolge, perlopiù, nel 2022, sul finire della Grande Pandemia, con la «compressione della corporeità, i danni che abbiamo subìto nelle nostre relazioni e nella nostra psiche […] che qualcuno si affretta a sminuire se non a negare, ma con cui avremo a che fare a lungo» [4]. Ci sono anche varie puntate nel passato fino alla guerra di liberazione partigiana. Con la violenza nazifascista: la violenza per eccellenza! Ma, chiedo: la violenza che abbiamo subìto sui nostri corpi e sulle nostre menti durante il lockdown non ci porta a quell’altra grande violenza, sui corpi e sulle menti di tutti, che è stata la Grande Guerra? Quell’evento senza il quale la violenza del nazifascismo sarebbe incomprensibile e che ci fa vedere l’evento pandemico per quel che veramente è stato, cioè il compimento, l’atto finale, di quella mutazione antropologica avviata dalla Grande guerra, quella carneficina industriale di inizio Novecento. Insomma, non si racconta qui la grande storia della Modernità, lunga un secolo, nella quale siamo stati proiettati a viva forza e con inaudita violenza e da cui adesso veniamo espulsi con altrettanta forza per «naufragare in un tempo sempre più microbico e parcellare?».     Sara Molho Eccoci di fronte al muro matto. Segnati da Antonia Nevi, la voce narratrice de Gli uomini pesce , ci sono luoghi, persone, oggetti. Il muro matto traduce in immagine bidimensionale conoscenze e storie che si dipanano attraverso tempi e spazi diversi, fa parte di uno sforzo di formalizzazione. Si tratta di «Una scena. Un insieme di immagini. Una geografia [5]». Ne Gli uomini pesce  il muro matto diventa elemento narrativo e scatola cinese: ci sono tanti altri muri matti che possono essere raccontati all’interno del libro e che possono allargarsi ad altri volumi di Wu Ming e Wu Ming 1, da La macchina del vento a Ufo 78 . Tutto può essere (a volte pericolosamente) connesso con tutto, segnala Wu Ming 1 (altrove, in Q di Qomplotto ). La vicenda narrata, ne Gli uomini pesce , si dipana entro diversi piani temporali, ma soprattutto si muove attraverso le valli del ferrarese. Le persone allargano i confini del volume, sconfinano fino a Ventotene e alla Lunigiana, alla Corsica e all’Andalusia. Il mio muro matto giunge a Milano, dove vivo. Due anni fa, frequentavo Cascina Torchiera soprattutto per consultare l’archivio e la biblioteca che custodisce. Ho sempre avuto una fascinazione un po’ irrazionale per gli archivi. Nulla che mi abbia indotto a lavorare coerentemente in tal senso dopo un unico esame di archivistica, comunque abbastanza perché mi ci ritrovi spesso. Nel febbraio 2023 veniva presentato qui Ufo 78 . Ho conosciuto così alcune delle persone che ora, insieme a me, fanno parte di Collettiva Interzona, con cui cerchiamo di prenderci cura di Bibliotork Interzona Caronia e, in molti casi, ci occupiamo del suo intorno. La ricerca, nei romanzi di Wu Ming 1, come nella saggistica, è viva ed è insieme un espediente narrativo. Qui la geografa Antonia Nevi, altrove l’antropologa Milena Cravero. Loro non esistono, i tragitti che percorrono a volte sì. Gli uomini pesce è una fabula speculativa, in cui «fatti e favole hanno bisogno gli uni degli altri [6]». Nella traduzione italiana di Chthulucene  di Donna Haraway «FS» significa fantascienza, fabula speculativa, fatto scientifico, femminismo speculativo. La necessità di adottare figure polimorfe come la FS nasce dall’urgenza, ne Gli uomini pesce,  di parlare di catastrofe climatica, di pandemia, di riscatto dei corpi, di antropizzazione del territorio. In un volume prossimo a Gli uomini pesce, Wu Ming 1 riprende l’adagio di Fredric Jameson scrivendo di «storicizzare sempre [7]»; segnala anche che questa «matassa» (termine di Haraway e non di Wu Ming 1) di favole e fatti dovrebbe «esporre e problematizzare le tecniche utilizzate nella scrittura [...] in modi che non spezzassero l’incanto della narrazione [8]».Si tratta di un miscuglio funzionale a qualcosa, in cui risuonano le parole di Romano Alquati relative alla «conricerca»: «Vogliamo […] produrci una conoscenza anche un poco parziale e ridotta [...], sì, ma che funzioni praticamente per il raggiungimento di certi nostri fini, nel movimento verso un contropercorso : conoscenza relativa e performativa, strumentale [9]» e quindi «mappa aperta e provvisoria [10]», mai fine a sé stessa.   «Noi facciamo la ricerca innanzitutto per potenziare il nostro conoscere, in primis  come contro-mezzo [11]», e la facciamo con corpi organizzati orizzontalmente e non verticalmente. La ricerca è una cassetta degli attrezzi, e gli attrezzi vanno mostrati perché sia aperta e funzionale – Wu Ming 1 a questo proposito scrive di voler « mostrare la sutura [12]». I metodi di cui parla Alquati sono propri della ricerca sociale: l’osservazione partecipante, l’autobiografia, l’intervista. Wu Ming 1 li ha utilizzati tutti, tra romanzi e saggistica – si pensi alla moltitudine di voci in Un viaggio che non promettiamo breve (Einaudi, 2016) e nell’autobiografia di Valerio Minnella, Se vi va bene bene se no seghe (con Wu Ming 1 e Filo Sottile, Alegre, 2023). Tra quelle voci si insinua il perturbante, ci ha raccontato lui stesso. La «sutura» è sottile. L’inchiesta e la ricerca vanno quindi intese come fasi di una più ampia conricerca, parti di un contropercorso, più o meno frastagliato, fatto di momenti non sempre evidenti. Alquati ci mette in guardia: mappe e territori non sono mai la stessa cosa. Il muro matto non è mai anche l’oggetto del ricercare. Essi però, per rimanere con Alquati e Haraway, Timeto e Wu Ming 1, con-divengono.   Note [1] Luciano Parinetto, Alchimia e utopia , Pellicani, Roma 1990, p. 30. [2] Wu Ming 1, Gli uomini pesce , Einaudi, Torino 2024, p. 399. [3] Antonio Caronia, Il buco nero del tempo digitale [Cogli l’attimo! (se ci riesci!)] , 2004, disponibile al link: https://www.academia.edu/305223/Cogli_lattimo_se_ci_riesci_ [4] Wu Ming 1, Gli uomini pesce , cit., p. 295. [5] Wu Ming 1, Gli uomini pesce , cit., p. 168. [6] Federica Timeto, Dizionario per lo Chthulucene , 2019. https://not.neroeditions.com/archive/dizionario-lo-chthulucene/ [7] Wu Ming 1, Q di Qomplotto , Alegre, Roma 2021, p. 83. [8] Ivi, p. 288. [9] Romano Alquati, Per fare conricerca , DeriveApprodi, Roma 2022, p. 25. [10] Ivi, p. 29. [11] Ivi, p. 58. [12] Wu Ming 1, Q di Qomplotto , cit., p. 288.

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    Il falcone maltese # 1: La crime story   Roberto Gelini The Maltese Falcon  è un famoso romanzo di Dashiell Hammett, uscito al cinema in Italia con il titolo Il mistero del falco , diretto da John Huston  – era l’esordio di questo grandissimo regista – e interpretato da Humphrey Bogart. Si tratta non soltanto di un capolavoro, sia come opera letteraria, sia come film, ma soprattutto racchiude in sé tutta una serie di suggestioni che la rendono, in qualche maniera misteriosa, insieme a poche altre, iconica, simbolica, quasi rappresentasse al più alto livello la forza di un certo tipo di storia e di un determinato genere, il poliziesco. Prenderla come titolo di questo spazio vorrebbe rendere subito chiaro di cosa si intende parlare qui. L’intento è quello di iniziare un piccolo viaggio all’interno della letteratura di genere, nel suo passato, nel suo presente e nei suoi sviluppi futuri, mettendone in evidenza caratteristiche, spunti, suggestioni che la rendono parte integrante del nostro immaginario collettivo. Un occhio di riguardo dovrebbe essere riservato ai rapporti tra le storie e la società in cui nascono e si diffondono, così come ai modi attraverso i quali vengono fruite, e soprattutto alle maniere in cui contribuiscono a innervare e mutare l’immaginario collettivo. Insomma un tipo di discorso che non si limiti allo specifico letterario o filmico, ma che riesca ad attraversare le varie forme di comunicazione, mirando soprattutto a indagare le storie raccontate e il modo in cui influiscono sui modi di pensare e le forme di vita. Il titolo di questa sorta di rubrica, inoltre, è un chiaro riferimento al genere con cui si intende partire, un genere che già è un po’ difficile da definire, per le tante coloriture diverse che ha presentato e presenta al suo interno, e che per rimanere a un livello più generale possibile possiamo chiamare poliziesco oppure crime story  o ancora, dal nome della famosa collana mondadoriana, giallo. Insomma, si tratta di storie incentrate su di un crimine e sul tentativo individuarne il colpevole. Se volessimo risalire alle origini di questo tipo di racconti, dovremo partire dagli albori della letteratura. Potremmo, così, individuare il primo detective – anche se alquanto facilitato dalla propria onniscienza – nel Dio della Bibbia, che risolve il primo caso di omicidio della storia, quello di Abele, da parte di Caino. Oppure potremmo rintracciare il modello di un famoso romanzo di Agatha Christie nell’ Edipo re di Sofocle, in cui chi indaga è in realtà l’assassino. E che dire ancora dell’Orestea di Eschilo o dell’ Amleto  di Shakespeare? In realtà il campo di indagine può e deve essere ristretto di molto. Il giallo, inteso in senso moderno, nasce molto più tardi, dall’incontro tra Charles Baudelaire e Edgar Allan Poe. Un incontro che fisicamente non c’è mai stato e che, quindi, come le storie e il falcone maltese stesso, secondo la celeberrima ultima battuta pronunciata da Sam Spade/Humphrey Bogart nel film è fatto «della stessa materia di cui sono fatti i sogni». «Poe e Baudelaire: la nascita del poliziesco» Il rapporto che lega Charles Baudelaire a Edgar Allan Poe è molto forte, davvero potentissimo. Il poeta francese cercherà in tutti i modi di diffondere l’opera dell’americano, scarsamente apprezzato anche nel proprio paese. Studierà la sua lingua, lo tradurrà, affermerà non soltanto di aver trovato nei suoi testi temi e argomenti che sono anche i suoi, ma addirittura frasi che lui stesso aveva pensato in precedenza. Insomma vede nello scrittore d’oltreoceano un sodale, un fratello. Ma perché? Cosa possono avere in comune un grandissimo poeta e uno scrittore di racconti «horror»? Cosa lega il poeta maledetto, il fondatore della poesia moderna, colui che ha rivoluzionato la maniera di intendere l’arte poetica e l’autore di novelle paurose, di letteratura di consumo? Forse è proprio il nuovo modo che entrambi hanno di concepire l’arte, la poesia, la comunicazione. È il mondo che sta cambiando, con le varie rivoluzioni industriali niente è più come prima. I nuovi rapporti di produzione stanno modificando per sempre la vita delle persone, imponendo nuove forme e modi di vivere, facendo emergere istanze e bisogni di nuove classi sociali. Insomma è il capitalismo che avanza. Come tutto il resto anche il ruolo fin qui rivestito dall’artista, dall’intellettuale entra in crisi, si modifica radicalmente. Ecco, la risposta che mettono in campo il francese e l’americano sembra avere in comune i punti fondamentali. Innanzi tutto è radicalmente materialista. Scrivere, si tratti di poesia o di racconti del mistero esige un’analisi rigorosa del proprio modo o metodo di composizione, la conoscenza del proprio pubblico e, soprattutto, la consapevolezza che si tratta sempre di un atto di comunicazione. Ecco, così, che Poe, in «Filosofia della composizione», descrive minuziosamente tutti i passaggi legati all’ideazione e alla stesura della poesia «Il corvo». Mostra di tener conto dei gusti e delle esigenze del proprio pubblico e arriva addirittura a tener presente il tempo necessario alla lettura. L’approccio, come si vede, è radicalmente materialista. Stesso materialismo e stessa consapevolezza del pubblico appare evidente nel capolavoro baudeleriano, «I fiori del male», nell’indirizzo «Al lettore» che apre l’opera e che si conclude instaurando un legame inscindibile tra autore e lettore: «– Hypocrite lecteur, –mon semblable, – mon frère!» (– ipocrita lettore, – o mio simile, – o fratello!). Il legame allora si estende oltre che al sodale letterario, anche al lettore. È come se si mirasse a un’alleanza scrittore-lettore, fortemente critica nei confronti del sistema economico-sociale che si va costruendo, dei processi di socializzazione e dei nuovi rapporti di produzione basati su forme di lavoro proletarizzato. Le armi, oltre all’analisi che produce consapevolezza, coincidono essenzialmente con le metodologie per far emergere quanto vi è di non misurabile, e dunque di impossibile da mettere immediatamente a valore, all’interno della società. Il racconto poliziesco moderno nasce nell’aprile del 1841, quando sulla rivista «The Graham’s Magazine» di Filadelfia esce per la prima volta «I delitti della Rue Morgue». Il primo detective della storia si chiama Auguste Dupin e vive a Parigi, insieme all’anonimo narratore. Dupin è di ottima famiglia, caduta in rovina, i due vivono in una casa a Faubourg St. Germain. Il protagonista ha un’intelligenza brillante, capacità analitiche profonde, ma anche molta immaginazione. Come si vede, investigatore e narratore presentano molte caratteristiche che si ritroveranno in Sherlock Holmes e Watson. Dupin vive isolato dalla società, perso in sogni e tetre fantasticherie, da cui esce soltanto quando viene colpito da un delitto. Entra in azione quando una forma di conflitto sociale, il delitto, appunto, si presenta nascondendo il suo contenuto reale, diventa appunto mistero, qualcosa che deve essere scoperto, decifrato. Quando proprio quella attività intellettuale che utilizza in forma astratta e sterile nelle proprie fantasticherie può cambiare di segno, può produrre realtà. Sono momenti in cui la vita stessa, nel suo flusso reale, si presenta come fantasticheria (il delitto/mistero) che può essere compresa (ovvero risolta, svelata) da quella stessa attività intellettuale utilizzata nelle fantasticherie. L’insieme di capacità di analisi, ragionamento induttivo e, soprattutto, immaginazione, così, produce la realtà. Il detective individua e scompone, grazie all’analisi, gli elementi del mistero e li ricompone grazie all’induzione, ma soprattutto, grazie all’immaginazione. Non si tratta di lavoro, ma di virtuosismo, di insieme di analisi materiale e di costruzione fantastica. La logica del detective – che poi è quella dell’intellettuale, del poeta, dell’artista – si oppone alla logica imperante, alla razionalità capitalista, incarnata e seguita dalle forze di polizia che, al massimo, possono accusare qualche innocente, proprio perché non riescono a spingersi con la loro immaginazione oltre i limiti, fino all’inimmaginabile. L’attività dell’investigatore non può – almeno non poteva all’epoca – essere sussunta dal capitale e messa a valore, non è “misurabile”. Proprio come la poesia e l’arte, che nelle nuove forme apparse a partire dalla metà dell’Ottocento si distaccano violentemente da tutto ciò che erano state prima, si lanciano lungo strade nuove, si presentano oggettivamente come sovversive. Non più «kalòs kagathòs», il bello e il buono, ma «I fiori del male». Sembra quasi di rivedere Charles Baudelaire nel 1848, sulle barricate a Parigi, con una pistola in una mano e una bandiera rossa nell’altra, che cerca il padrigno, il generale, per ucciderlo. Un’ultima considerazione, nei tre gialli di Poe non c’è galera, non c’è nessuna ricomposizione dell’ordine violato dal delitto, non c’è repressione. Del resto in un racconto il colpevole è uno scimmione, il secondo si conclude prima del probabile arresto dell’assassino, nel terzo il «villain» è troppo potente per essere arrestato. Mauro Trotta ha lavorato per vent’anni nel campo della comunicazione e dell’editoria. Ha partecipato insieme a Sergio Bianchi alla fondazione della rivista «DeriveApprodi». Da oltre vent’anni collabora alla pagina culturale de «il manifesto». Dal 2005 insegna materie letterarie nei licei e negli istituti letterari. Ha partecipato, curato e pubblicato libri sulla pubblicità, sui movimenti e sugli anni settanta.

  • post-poetica

    Note sulla scrittura asemica Sergio Bianchi, Tracce , 2016 Alcuni brani tratti da: Senso senza significato. Note sulla scrittura asemica. 2006-2023 , di Marco Giovenale, ikonaLíber, Francavilla al mare (Ch), 2023. L’«asemic writing» è definibile, con buona approssimazione, come quella modalità della grafica o del disegno – recursivamente presente nel mondo già in tutto il Novecento e fittamente poi nel primo ventennio degli anni Zero – che fa intervenire sulla pagina caratteri, segni e glifi che assomigliano appena a lettere tipografiche, oppure a grafie tracciate a mano, fantasmi imprecisi di linguaggi conosciuti; senza però in verità rinviare ad alcun alfabeto noto, ad alcuna parola o frase reale: nulla c’è da decodificare, perché di una apparenza di lingua significante affiorano solo le possibili cifre e forme, profili organizzati per pura fascinazione visiva; e l’ipotesi di un significato si rivela curiosamente fallace, vuota, negata.   Una volta abbattuto il significato, tuttavia, permane la percezione di un passaggio di senso , ampio, attivato in primis dall’evidenza del senso specifico , visivo, del linguistico . Il complesso dei segni, e il loro groviglio o la loro rarità sulla pagina, il denso o il labile, organizzano insomma lo spazio come parrebbero fare le lingue note, senza però costituire linguaggio comunicativo. Ci si potrebbe spingere più oltre. Si potrebbe cioè arrivare a dire che l’intera produzione di asemic writing che vediamo fiorire e crescere esponenzialmente da vent’anni a questa parte ha i titoli per essere pensata come una grande macchina di disorganizzazione e disintegrazione del significato a opera del senso stesso .   È opportuno sottolinearlo: il campo della scrittura asemica è ormai delimitato e definito da un buon numero di pubblicazioni che in linea di massima, quasi tutte, insistono sull’elemento che un mio articolo del 2013 sulla rivista «l’immaginazione» faceva presente, ossia sulla natura di scritture senza significato sul fronte verbale, ma ricche di senso , in generale; e attivanti (a vuoto) i recettori del significare linguistico  in particolare, come appena detto. Posta la ineliminabilità di una istanza di senso – in accezione ampia – dall’esperienza e dalla percezione umana, è evidente che materiali segnici della più diversa natura, soprattutto se elaborati in forma grafica inedita, e se caricati di un’attesa di linguaggio , sollecitano e accrescono la percezione addirittura quasi tattile, fisica, di tale ineliminabilità.   È dunque in campo una sorta di allusione al linguaggio subito revocata, spostata; un felice scarto  – più o meno laterale , marginale, ai limiti non del detto  ma del dicibile. Lo suggerisce Barthes in un celebre saggio del 1979: Cy Twombly «fa riferimento alla scrittura [...] e poi si dirige altrove. Dove? Lontano dalla calligrafia, cioè dalla scrittura formata, segnata, calcata, modellata, quella che nel XVIII secolo veniva chiamata bella mano . A modo suo [Twombly] dice che l’essenza della scrittura non è né la forma né l’uso, ma solo il gesto, il gesto che la produce lasciandola trascinare : uno scarabocchio, quasi una sozzura, una negligenza» […].   Addenda , inclusioni (senza conclusioni)   I Abbiamo visto all’opera, in questa sommaria successione diacronica di concetti e ritratti, molte sincronie. E temi, ricorrenze, affinità, punti (non) fermi, probabilmente riassumibili così: senso , ma senza significato (o addirittura responsabile della scomparsa del significato) in una: imminenza  di linguaggio, o allusione al linguaggio, ma espressa in: segni “nulli” , fatti per essere visti più che letti, inoltre sottoposti a: deformazione , riformulazione, distorsione, che fanno tutt’uno con la loro evidente: natura essenzialmente non comunicativa , che nasce da e approda a una: illeggibilità , condizione disturbante quanto attraente, accompagnata dalla netta percezione del: gesto (pittorico o meno) che ne è origine come segno di energia (vitale), che insieme è traccia di uno: spostamento della scrittura entro il campo indecidibile già proprio dell’astrattismo e di un: grafismo indifferenziato  (Barthes) come di una: variazione interminabile e (percezione della “originaria”) variabilità e instabilità dei segni, tutti.   II È l’incerto il territorio dell’asemico, proprio in quanto si fonda su o parte da uno stato di flickering multiplo tra (1) grafia che punta a una lingua, (2) lingua che però non esiste, (3) grafia che torna allora a sé in aspetto di disegno (astratto), (4) disegno che si nega come tale perché (appunto) in origine punta a una lingua, chiudendo cosi il cerchio. Questo motore (o movimento rotatorio o magari ellittico, quindi con accelerazioni e decelerazioni) è forse particolarmente vicino al motore di accensioni e quiescenze di senso che fa funzionare qualsiasi cosa, dal godimento per una musica (una frase musicale che sta per dire qualcosa  e poi devia, o forse no, o forse il cambiamento è la cosa che andava detta), alla lettura di una pagina inedita, all’esplorazione di una casa abbandonata, all’autoipnosi di fine sera quando si cerca di tornare quanto più indietro possibile in determinate memorie – eccetera.   […] V La scrittura asemica può essere vista anche come complessivo grande atto di ironia (sull’opera particolare, sul linguaggio in generale) nel suo promettere lettere e realizzare glifi, porre apparenti significanti che però visibilmente negano il significato. È un passo prima o già dentro l’indecidibilità di alcune scritture di ricerca postpoetica (dal 1960 in poi) lineari e leggibili quanto inafferrabili.   Marco Giovenale , editor, traduttore e asemic writer , è tra i fondatori e redattori di gammm.org  (2006), sito di materiali sperimentali. Insegna storia delle scritture italiane di secondo Novecento e contemporanee, in particolare presso centroscritture.it . È autore di numerose opere di e sulla poesia.

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    Per una rivista   Roberto Gelini Pubblichiamo i quattro numeri della rivista «Luogo Comune» (novembre 1990 – giugno 1993) con, a titolo di introduzione, il testo Per una rivista  scritto da Paolo Virno nel 1989. A fare da incubazione a quel progetto furono incontri seminariali che portarono alla pubblicazione per l’editore Theoria, nel 1990, del volume I sentimenti dell’aldiqua. Opportunismo paura cinismo nell’età del disincanto . Una straordinaria lettura del decennio Ottanta. (Questo stesso volume è stato poi ripubblicato da DeriveApprodi, prima gestione).   La redazione della rivista era composta da Paolo Virno, Marco Bascetta, Andrea Colombo, Papi Bronzini, Alessandra Castellani, Bia Sarasini, Angela Scarparo Augusto Illuminati, Lucio Castellano, Franco Piperno, Lanfranco Caminiti, Giorgio Agamben, Massimo De Carolis, Enzo Modugno, Giovanni Giannoli, Franco Lattanzi, Massimo Ilardi, Mauro Trotta, Sergio Bianchi e altri. «Luogo Comune» fu uno spartiacque e nella sua breve ma folgorante esistenza costruì alcuni dei paradigmi teorici che fecero da base a molto dell’agire dei movimenti nel quindicennio successivo. 1.  La   rivista intende regolare i conti con gli anni ’80, col senso comune e con l’ethos del decennio in corso. Riteniamo possibile la ripresa di un pensiero critico radicale, risolutamente all’altezza dei tempi: che non sia, dunque, un richiamo mesto od orgoglioso agli anni ’70. L’identificazione di un angolo prospettico finora insospettato, guardando dal quale si riesca a passare al più ruvido contropelo il presente, ma non in nome del passato prossimo: poco o tanto che sia, questo è il punto. La rivista vuol provocare un effetto di spaesamento, una sospensione delle opinioni consolidate, un’attesa. Non servono cauti rattoppi a un vecchio ordito concettuale, né risentite postille al dibattito corrente, né indefiniti “approfondimenti”. Importante è aprire nuove feritoie, che diversamente orientino la vista. Importante è trovar degni di meraviglia certi cliché cui più non si bada, e ripetitive fino al tedio molte conclamate “novità”; dividere quel che pare simbiotico, e collegare ciò che è più lontano; spostare l’attenzione, così da riconoscere un profilo umano nel medesimo coacervo di linee dove altri scorgono un’anfora. Ma proprio questa radicalità d’approccio va di pari passo con una presa di congedo. Il ’68 e il ’77 sono fuori dall’orizzonte, oggi. L’interruzione della memoria va accettata senza riserve, cercando semmai di metterla a frutto. Molto meglio l’oblio, peraltro, anziché una sequela di ricostruzioni inevitabilmente false, minate da una sorta di impossibilità logica. L’attuale povertà non va agghindata o dissimulata, ma trasformata in una sobria morale provvisoria , la cui massima sia: ciò che è stato costituisce un bottino di conquista, la memoria è un fine o una chance , il passato è un risultato da conseguire. Non v’è tradizione, cui far ricorso preventivamente. Occorre piuttosto costruirne una: essa ci sta dinanzi come un compito, non alle spalle come un’eredità. Ma la tradizione da inventare non può che essere una proiezione all’indietro di questo  presente, delle speranze e dei desideri che lo lacerano. Il ’68 ci aspetta al termine di un lungo periplo: al momento, che resti pure emblema indecifrato, geroglifico, mitologia. È opportuno che la rivista si attenga ai soggetti, alle mentalità, alle forme di vita, ai modi di produrre e di comunicare, che rappresentano l’estremo frutto di una modernizzazione e di uno sradicamento senza precedenti. Giacché non è in questione una lunga e plumbea parentesi, ma un mutamento irreversibile dei modi d’essere e della cultura, è fuor di luogo chiedersi “a che punto è la notte”, quasi stessimo aspettando un mattino: ogni utile luce sta già nella presunta notte, basta abituare gli occhi. Per indicarle un criterio generale, diciamo che la rivista si occuperà soltanto dei problemi, ai quali nessuna soluzione arrecherebbe un ipotetico ripristino di condizioni precedenti. D’altronde, solo se la rivista saprà afferrare la più estrema differenza specifica, la più   recente innovazione, il più inedito sussulto di protesta, essa si metterà anche in grado di ravvisare continuità inaspettate col passato: col nostro passato, e, a un tempo, con tutto il passato. Nel “soltanto adesso”, rilevato gelosamente come tale, è lecito poi veder balenare un “fin da allora”, e persino un “da sempre”. 2.  Per molti militanti degli anni ’60 e ’70, ma anche per la parte migliore delle generazioni successive, una dignitosa posizione di resistenza, di fronte alla bancarotta del progressismo e del pensiero di sinistra in genere, è consistita nell’intessere un’apologia del presente, tanto testarda quanto priva di illusioni. Con essa si è voluto apprezzare comunque, talvolta anche dal fondo (o dalla vetta) di un carcere speciale, le obiettive trasformazioni che scandivano la fuoriuscita dalla società del lavoro, il nuovo volto della tecnica e le possibilità connessevi, la modificata intelaiatura dell’esperienza quotidiana. Ci si è rifiutati, insomma, di tenere il broncio al proprio tempo; vi è stato un “dir di sì” al mutamento, anche se barbaro. In tal modo, si è inteso restar prossimi, a ogni costo, alle condizioni reali da cui ogni conflitto venturo sarebbe potuto sorgere, in cui ogni speranza esente da impostura aveva diritto di piantar radici. La rivista può trar giovamento da questa forma di resistenza, solo a patto di decretarne la fine e di costituirne l’effettivo oltrepassamento. Ogni prosecuzione di un atteggiamento strenuamente “modernista”, invece di tener aperti gli spiragli, ingenera un blocco. Il matrimonio col diavolo, contratto per preservare la propria integrità, rischia di diventare routine. Spesso l’apologia del presente, adottata per non rassegnarsi, si è chiusa mestamente su se stessa: si è finito con l’identificare nel puro e semplice sviluppo tecnico un passo in direzione dell’emancipazione, si è scambiato il duro decorso fattuale per una beatitudine imminente. A questo proposito suona ancora pertinente il rimprovero che Walter Benjamin rivolse ai socialdemocratici tedeschi: «Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l’opinione di nuotare con la corrente. Lo sviluppo tecnico era il filo della corrente con cui credeva di nuotare. Di qui c’era un solo passo all’illusione che il lavoro di fabbrica, trovandosi nella direzione del progresso tecnico, fosse già un’azione politica».Il software, il postindustriale, il decentramento produttivo, la predominanza dell’«agire comunicativo» nel lavoro, sono sembrati la corrente con cui nuotare, quasi «già un’azione politica». Questa convinzione, ora, suona malinconica e insensata. Ciò che conta, per la rivista, è rilevare i rapporti di forza, le forme di dominio, le cause di sofferenza, che si annidano nel nuovo corso, nella mutata articolazione della giornata lavorativa, nei modelli operativi che non hanno più il finalismo al loro centro, nel tempo-spazio metropolitano. La rivista deve cogliere tutti i barlumi di soggettività e di conflitto, che inquinano la “corrente”, alterandone il verso.All’irreversibilità dei processi di mutamento, a suo modo registrata dall’apologia del presente si deve accompagnare un’appuntita sensibilità per la loro ambivalenza. Quella irreversibilità e questa ambivalenza, mai scisse, circoscrivono il “luogo” che la rivista elegge a propria dimora. 3.  La rivista è ambiziosa, Non voce tra le altre, né orgoglioso e appartato «dixi et salvavi animam meam». Suo proposito dichiarato è incidere sul senso comune, contribuendo dunque a modificare la più   immediata percezione della realtà sociale. A immagini familiari s’intende sostituire altre immagini, che familiari possano diventare. Vogliamo operare sui luoghi comuni – nell’accezione neutra, niente affatto spregiativa, trasmessaci dalla retorica antica: non stereotipi o banalità, ma le forme generalissime cui si ricorre per trattare qualsiasi argomento. La rivista, disinteressata a speciali squisitezze, ha la pretesa di far balenare, corrodendo gli attuali, altri possibili luoghi comuni. La nozione di «senso comune», nell’epoca in cui il sapere astratto e le sue incarnazioni materiali sono parte fondamentale dell’esperienza ordinaria, è un crocicchio, un punto di confluenza e di composizione di elementi eterogenei. Per un verso, il senso comune è un deposito di detriti teorici, punto di approdo di concezioni assai rarefatte, di paradigmi dapprima affermatisi in ambiti rigorosamente “separati”. Per l’a1tro, esso manifesta, in forme spurie e mai trasparenti, mutamenti ben sodi avvenuti nelle relazioni sociali e negli stili di vita. In questo secondo significato, il «senso comune» non ha valenza cognitiva, ma pragmatico-vitale. Ciò che veramente conta è, però, la costante sutura tra i due lati, la piena sovrapposizione tra forme culturali e sviluppo materiale. Per la rivista, prendere a proprio oggetto il «senso comune» già implica una scelta di merito. Si privilegia, cioè, l’insieme di fenomeni nei quali viene in vista l’identità tra “struttura” e “sovrastruttura”, la perfetta coincidenza tra produzione ed eticità, tra modelli operativi e immagini del mondo, tra tecnologie e tonalità emotive. Si respinge ogni scissione metafisica tra corpi e anime, tra un “sotto” e un “sopra”, tra cause materiali ed effetti spirituali (o viceversa). In una situazione, in cui cultura e interazione comunicativa sono divenute materia prima dei processi di lavoro, i cosiddetti “fatti” dell’esistenza materiale si presentano come viluppi teoretici; e, rispettivamente, le “idee” non rispecchiano gli assetti fattuali, ma ne sono una componente.Naturalmente l’immediata coincidenza tra forme culturali e articolazione dello sviluppo materiale può avere diversissime versioni. La rivista, rendendo visibili i molteplici sentieri alla cui confluenza si situa il «senso comune», aspira a criticare l’attuale conformazione di quest’ultimo e, insieme, ad anticiparne un’altra, ora solo latente. Alla maniera di un microcosmo, la rivista vuole esemplificare un nuovo «senso comune».Così facendo, la rivista persegue un obiettivo politico immediato, circoscritto e però decisivo. Si tratta di dar forma e voce allo smottamento su posizioni critiche e non conformiste di una parte significativa dell’intellettualità di massa: smottamento maturo, e per certi versi già in corso. Questa diffusa intellettualità, talvolta integrata in reti produttive avanzate, talaltra marginale e «dai piedi scalzi», è il bandolo di tutte le matasse: essa materializza in se stessa le trasformazioni degli ultimi anni, l’incastro indissolubile tra sapere e vita, i nuovi modi di lavorare e di comunicare, i sentimenti oggi prevalenti. Lavorare sul «senso comune» vuol dire, appunto, rendere esplicita e accelerare la defezione di una quota consistente dell’intellettualità di massa dagli ordinamenti e dalle idealità vigenti.Non è possibile dar conto in modo esauriente di temi e problemi, su cui la rivista si soffermerà. Basti una rapida menzione, rispetto alla quale è opportuno leggere tra le righe, completando a piacimento mediante immaginazione produttiva. La contesa sul tempo a)  Ciò che caratterizza gli ultimi due decenni è la fuoriuscita dalla società del lavoro. La riduzione del lavoro comandato a porzione virtualmente trascurabile di una vita; la possibilità di concepire la prestazione salariata come l’episodio di una biografia, invece che come ergastolo e fonte di duratura identità: è questa la grande trasformazione, di cui siamo protagonisti non sempre consapevoli. Il tempo di lavoro è la misura vigente, ma non più vera, dello sviluppo e della ricchezza sociali. I movimenti degli anni ’70 puntarono sulla non verità, per scuotere e abrogare la vigenza. Diedero un segno di parte, altamente conflittuale, alla tendenza obiettiva: rivendicarono il diritto al non lavoro, praticarono una migrazione collettiva dal regime di fabbrica, riconobbero un carattere parassitario, nell’attività sotto padrone. Negli anni’80, la vigenza ha prevalso sulla non verità. Pertanto, il superamento della società del lavoro avviene nelle forme prescritte dal sistema sociale basato sul lavoro salariato: disoccupazione da investimenti, prepensionamenti, flessibilità come regola universale, part-time illimitato, e via enumerando. Questo decorso assomiglia all’oltrepassamento della proprietà privata sul terreno stesso della proprietà privata, che il capitalismo virtuosamente compie con la formazione delle società per azioni. La rivista intende seguire da presso, interpretandone tutti i “segni”, la fuoriuscita dalla società del lavoro: sia come nuovo dominio, che come occasioni di libertà. b)  Il governo del tempo è il luogo della politica e dei conflitti nell’occidente sviluppato. Chi comanda il tempo? Chi traccia e poi sorveglia la frontiera tra lavoro e non lavoro? Nel tramonto della società del lavoro, il tempo diviene materia prima, bene basilare, irrinunciabile oggetto di consumo. Non uniforme involucro di eventi, ma immediato contenuto della percezione e del desiderio. Tutto intero, lo spettro della vita sociale è attraversato dalla contesa tra due possibili calendari. La lotta sul tempo ha come centro la questione dell’orario collettivo di lavoro. Ma non solo. Essa si manifesta anche, sebbene in modo più sordo e opaco, nei rapporti di forza determinatisi all’interno dello spazio-tempo innovato d’autorità. Sotto questo profilo, la massima rilevanza spetta alla zona grigia costituita da coloro che entrano ed escono da impieghi strutturati, e che han fatto della mobilità e dell’incertezza occupazionale una forma di vita. Questi frontalieri sperimentano su di sé la friabilità delle attuali scansioni temporali, e quindi la loro mutabilità. Essi rappresentano potenzialmente una differente combinazione delle forze produttive, nonché un nuovo principio cronologico. La rivista ha per proprio tema la lotta sul tempo, i suoi modi espliciti od obliqui, le sue rifrazioni culturali (letterarie, cinematografiche, musicali ecc.). La rivista intende fare come se l’«altro calendario» fosse già in vigore, socialmente riconosciuto. c)  La sinistra aveva la sua ragion d’essere nella permanenza della società del lavoro, nei conflitti interni a quella articolazione della temporalità. La fuoriuscita dalla società del lavoro e la contesa sul tempo sanciscono la fine della sinistra. La rivista ne prende atto, senza compiacimenti ma anche senza rimpianti. 4.  Con la centralità del lavoro, va in pezzi la concezione progressista della storia. Vien meno un lineare nesso causale tra passato, presente, futuro: nesso che ha a proprio modello il processo lavorativo, appunto. Il passato, anziché consumato una volta per tutte, resta sempre del tutto attuale. Il presente del non lavoro, come ogni autore veramente nuovo, crea i propri predecessori, ossia riconosce in ogni angolo del decorso storico qualcosa che lo annuncia, dovunque trova immagini di sé. Il presente non si affilia a nulla di ciò che è già stato, prossimo o remoto che sia, ma appunto per questo protegge tutto il passato, ne salvaguardia le possibilità coartate, ne ascolta le voci zittite. Allorché il lavoro smette di far da fulcro delle relazioni sociali e delle vite dei singoli, tutta la storia passata si allinea con l’attimo ora in bilico. Mentre il progressismo non cessa di decantare il “nuovo”, senza accorgersi che in esso si riaffaccia il sempre uguale, ossia l’arcaico, l’attualità del non lavoro consegue la sua inalterabile unicità a furia di citazioni e ripetizioni. La rivista vuol contribuire ad affossare il progressismo. La rivista, inoltre, riconosce nella dilatazione del presente e nel potere di citazione rispetto all’intero passato un campo di battaglia. Anche la fuoriuscita dalla società del lavoro in forme dispotiche e umilianti avviene con “citazioni” e repliche del passato più lontano si rieditano relazioni sociali premoderne, esempi di dipendenza personale, arcaismi disciplinari, moralità tradizionali (rinverdite per controllare individui non più regolati dal regime di fabbrica). La rivista è consapevole che la dilatazione del presente proietta la contesa sul tempo all’indietro, investendo di essa tutti i pertugi del passato. L’intelletto astratto a)  Il sapere è divenuto realmente la principale forza produttiva, nonché ciò che determina tutti gli ambiti di esperienza immediata. L’autonomia dell’intelletto astratto è irreversibile.  La ricomposizione mano-mente appare ormai una cattiva mitologia. Non l’attenuazione, ma l’approfondimento dell’autonomia del generai intellect tecnico-scientifico costituisce una condizione di emancipazione e un principio-speranza. Infatti, è questa autonomia che, modificando la stessa morfologia del processo lavorativo ha fatto del lavoro intellettuale la forma generale dell’attività umana, il pilastro centrale nella produzione della ricchezza. E siffatto lavoro intellettuale di massa, a sua volta, non è significativo perché si proletarizza, ma, tutt’al contrario, perché non è mai riducibile a «lavoro semplice», a puro dispendio di tempo e di energia: dunque perché incorpora in sé, nella sua esistenza collettiva, sapere, competenze, informazioni, insomma generai intellect . La rivista s’interroga su quali forme prenda, oggi, il generai intellect , l’intelletto astratto; di quali antinomie, paradossi, conflitti  esso sia teatro. Il peso preminente del sapere nella produzione sociale e nella vita quotidiana fa ipotizzare alla rivista: 1) che sia pertinente e fruttuosa un’analisi epistemologica  del processo lavorativo; 2) che non sia più il denaro la principale «astrazione reale», l’incarnazione sensibile dell’universale (non più l’«equivalente generale», ma i paradigmi   epistemici inclusi nel generai intellect ). b)  Questo scenario suggerisce, inoltre, la decadenza dello schema finalistico , come chiave interpretativa del processo lavorativo. Anziché perseguire un singolo   scopo con mezzi idonei, il lavoro intellettuale di massa ha a che vedere con classi di opportunità  da specificare volta a volta, con un flusso di possibilità interscambiabili da articolare, con chances da cogliere o scartare. La macchina informatica, anziché mezzo per un fine univoco, è premessa per successive e “opportunistiche” elaborazioni. Secondo tale ipotesi, sono sottoposte a dura trazione le forme tradizionali di gerarchizzazione del processo lavorativo. La rivista intende accostare da vicino le nuove forme dell’attività, che poi sono l ’ altra faccia  della fuoriuscita dalla società del lavoro. c)  Nell’autonomia dell’«intelletto astratto»,   nella sua preminenza all’interno   della vita di tutti e di ciascuno, la rivista coglie la possibilità che si affermi un nuovo sensualismo , non marginale e asfittico. Allorché le astrazioni precedono e preparano ogni esperienza, la vista e l’udito e il tatto sono ciò che viene per ultimo, ma che proprio per questo è restituito alla sua pienezza e integralità. L’autonomia dell’intelletto astratto pone la percezione tattile o visiva come la sporgenza estrema di una macchina conoscitiva già interamente dispiegata. Dopo la sensazione non c’è altro, tutto il resto c’è già stato.  Per questo la sensazione non è depredata e decurtata, ridotta a elementare «dato sensoriale», in vista di successive asserzioni universali. Essa può conservare, come ultimo  anello di una catena conoscitiva, l’aroma materialistico del piacere e del dolore. La rivista s’impegna a riflettere sull’attualità di un simile sensualismo né ingenuo né regressivo. Disincanto e rivolta a)  La situazione emotiva degli anni ’80 è caratterizzata dall’abbandono senza riserve alla propria finitezza. Dall’ appartenenza spasmodica al determinato «qui e ora» in cui si è conflitti. Questo sentimento integrale della finitezza (e della sua non trascendibilità, neppure nella forma laica di un “progetto”) è suscitato peraltro, dallo sradicamento senza requie che ritma la storia della modernizzazione. Proprio il carattere artificiale, convenzionale, astratto di tutti i contesti di esperienza restituisce appieno il tenore della propria contingenza e precarietà. La «formalizzazione del mondo» e la percezione non dimidiata della caducità vanno di pari passo. Lo sradicamento rende strenua l’aderenza al «qui e ora» più labile. Questa situazione emotiva si è manifestata in sentimenti, quali la paura , l’ opportunismo , il cinismo . La questione principale, per la rivista, è se la stessa  situazione emotiva, anziché ad asservimento e ilare rassegnazione, possa invece dar luogo a un duro rifiuto dell’ordine sociale vigente. Se sia possibile intravedere segni di opposizione e di lotta a partire dalla medesima integrale appartenenza al «qui e ora», da cui sorgono anche cinismo e opportunismo. In breve se il disincanto può coniugarsi alla rivolta . b)  Le tonalità emotive del disincanto non sono inclinazioni psicologiche passeggere ma esprimono modi di essere: sono quanto di più “materiale” e “strutturale” sia dato pensare.Queste tonalità rappresentano nel modo più vivido l’impossibilità di qualsivoglia verace tradizione, l’abitudine alla permanente mutevolezza degli stili di vita, l’adattamento allo spaesamento più radicale. Più determinatamente: i sentimenti in questione si affermano senza riserve, allorché il processo di socializzazione si compie al di fuori del lavoro . Si ha, in verità, un duplice passaggio , che la rivista intende indagare. Per un verso, il processo di socializzazione, ossia l’intessersi della rete di relazioni mediante cui si fa esperienza del mondo e di sé, appare indipendente dai riti di iniziazione della fabbrica e dell’ufficio, essendo bensì scandito dai modi di vita metropolitani, dalla stabile precarietà  da ogni assetto, dalle mode, dalla ricezione dei media, dalla indecifrabile ars combinatoria  che intreccia sequele di fuggevoli occasioni, da innumerevoli shocks   percettivi. Per altro verso, però, l’innovazione continuativa dell’organizzazione del lavoro sussume l’insieme di sentimenti, attitudini, vizi e virtù, maturati per l’appunto nella socializzazione extralavorativa. Paura, cinismo, opportunismo entrano a far parte del “mansionario”. Lo sradicamento diviene una virtù professionale . c)  il sentimento della finitezza e del disincanto contengono implicitamente una ferma critica al modello stesso della rivoluzione politica . Il che non comporta necessariamente una perdita di radicalità, anzi.L’estremo sradicamento, coniugato al senso di un intrascendibile appartenenza al mondo, si esprime conflittualmente come defezione, esodo, secessione. Se si vuole come potenza dell’“impolitico”. Non più come vocazione a una gestione alternativa dello Stato. La sinistra europea non ha visto quanto spesso i movimenti giovanili e il nuovo lavoro dipendente abbiano preferito abbandonare , se appena possibile, una situazione svantaggiosa, anziché scontrarsi apertamente con essa. Anzi, la sinistra ha denigrato apertamente i comportamenti di “fuga” e di “diserzione”. Ma la fuga e la diserzione non sono affatto un gesto negativo che esenta dall’azione e dalla responsabilità. Al contrario. Disertare significa modificare le condizioni entro cui il conflitto si svolge, invece di subirle. E la costruzione di uno scenario favorevole esige più intraprendenza  che non lo scontro a condizioni prefissate. Un “fare” affermativo qualifica la defezione, imprimendole un gusto sensuale e operativo per il presente. Il conflitto è ingaggiato a partire da ciò che si è costruito  fuggendo, per difendere relazioni sociali e forme di vita nuove, di cui già si va facendo esperienza. La rivista, all’antica idea di fuggire per colpire meglio, unisce la sicurezza che la lotta sarà tanto più efficace, quanto più si ha qualcosa da perdere oltre le proprie catene . L’ideologia italiana (e no) a)  C’è una tendenza culturale diffusa che merita di venir discussa apertamente. Essa consiste nel raffigurare ancora una volta la società come una natura ma utilizzando per tale “seconda natura” le categorie e le immagini della nuova scienza.  I quanta  in luogo della gravitazione universale. La termodinamica di Prigogine al posto della lineare causalità newtoniana. Il biologismo insito nella teoria dei sistemi invece della favola delle api o della «mano invisibile». La rivista intende indagare di quali mutamenti è insieme sintomo e mistificazione. L’applicazione dei concetti delle nuove scienze alle relazioni sociali. Con ogni probabilità questa recente e molto specifica naturalizzazione  dell’idea di società rispecchia la perdita di centralità del lavoro, e l’opacità che ne consegue. I concetti indeterministici e autoreferenziali della nuova biologia e della nuova fisica registrano il «grande disordine» in corso, occultandone però la genesi effettiva. Colgono, e a un tempo degradano a natura , il nesso inedito tra sapere, comunicazione e produzione. b)  La rivista intende denaturalizzare  l’insieme dei fenomeni, teorie e comportamenti che s’adunano dietro l’etichetta di post-moderno . Si tratta di decifrare come novità intervenute nelle relazioni sociali e produttive ciò che li si presenta come entropia, fisica dei fluidi, clinamen, “catastrofe”. Il post-modernismo è ideologia, in senso forte e serio: rispecchia cioè mutamenti reali, salvo poi congelarli in una rappresentazione, in cui il conflitto e la rivolta sono, per definizione, fuori posto. Il post modernismo coglie l’irreversibilità del disincanto, ma non la sua ambivalenza. c)  Simmetricamente, il progettualismo illuminista (Ruffolo, Micromega) si propone di trascendere  la supposta “naturalità” sistemica delle forze produttive. Mediante etica e governo. Qui c’è, oltre che una povera lettura delle forze produttive e della modernità in generale, molta nostalgia. In una parola, il misconoscimento dell’irreversibilità della fuoriuscita dalla società del lavoro. La rivista ha, dunque, due obiettivi complementari su cui esercitare una funzione di «critica dell’ideologia»: neoilluminismo e post-modernismo. Critica dell’ideologia, però, per arrivare alle cose stesse , ai fenomeni recepiti e deformati a un tempo. d)  È proposito della rivista oltrepassare d’un colpo solo le dicotomie, in cui ha oscillato la sinistra europea nel corso della rapida trasformazione che ha investito la produzione. Habermas e Luhmann, per dire un apice. La sinistra italiana, poi, ha pendolato quasi per ipnotica coazione tra Ruffolo e De Rita, che di quelli sono la trasposizione in scala: dunque, tra 1’illuminismo progettuale del primo e il post-modernismo familista del secondo. La rivista giudica queste alternative per lo più apparenti, se non addirittura complementari. e)  Dopo dieci anni di grande trasformazione, 1’«ideologia italiana», in tutte le variegate componenti, mostra il suo tratto infine unitario. È come un presepe, con l’asinello, i re Magi, i pastori, la sacra famiglia: maschere diverse di uno stesso spettacolo. O come in un dipinto di Pellizza da Volpedo, in vena di ritrarre la marcia dei nostri intellettuali in preda a nichilismo euforico . Dopo i grandi polveroni, e il susseguirsi di “novità”, l’ideologia italiana può venir ricostruita con precisione, e criticata radicalmente. f)  La rivista intende sollevare la questione degli intellettuali , nei termini assolutamente inediti in cui si pone oggi. Gli intellettuali di rango, e soprattutto quelli fra loro che operano nei grandi media , svolgono un ruolo d’immediata direzione etico-politica . Tramontate le politiche culturali dei partiti, e nel mentre che si allargano a dismisura le fila dell’ intellettualità di massa , costoro (gli intellettuali “alti”, o inseriti nei media) si ritrovano tra le mani, e sulla bocca, un prepotere , una facoltà prima sconosciuta di orientamento e di influenza. Se c’è un centro di potere politico in senso proprio, è questo, è il loro. La rivista intende porre la nuova questione degli intellettuali, in tutta la sua specificità senza precedenti. 5.  I temi fin qui abbozzati non  saranno trattati direttamente dalla rivista. Essi devono restare sullo sfondo, costituire una griglia o una lente. La rivista si vuole affezionata e aderente agli eventi più concreti. È nella loro rilevazione e decifrazione, che va trasfuso e approfondito l’intero ventaglio di questioni e ipotesi or ora elencate. La rivista fa suo il molto citato proposito di Walter Benjamin: salvare i fenomeni attraverso le idee, rappresentare le idee nei fenomeni. Più che a una mediazione tra idee e fenomeni, si mira a un cortocircuito  tra blocchi teorici anche straordinariamente astratti e triti dettagli empirici. Per la rivista non è un impaccio, ma una virtù, stabilire una relazione subitanea tra un teorema dell’intelligenza artificiale (o un passo di Platone, o un problema controverso della ricerca biologica) e un fatto di cronaca, un comportamento giovanile, un film, un minimo bivio etico. Peraltro, il cortocircuito che si persegue non è affatto una concessione alla divulgazione (o alla “pratica”, o agli strattoni del “mondo della vita”), per chi è intento a rigorosi studi sistematici. Al contrario, la rivista è un luogo di elaborazione avanzata, una frontiera della ricerca teorica di ciascuno. Essa intende soffermarsi sui paradossi più aspri ed enigmatici. In testi brevi e semplici, non si divulga qualche “patrimonio” accumulato, ma si prova a rodere terreno a continenti mai esplorati. La rivista, inoltre, non è una passeggera deviazione da “reti” professionali, per chi in esse lavora. Né può rappresentare una derivazione di queste “reti”. Viceversa, la rivista è una “rete” culturale, politica, etica, che si aggiunge a quelle esistenti, approfittando, se possibile, di tutto quel che di buono e di importante alcune di esse producono. La rivista, estranea a ogni partito e a ogni gruppo organizzato, è un sistema di comunicazione libero e trasversale, allude almeno alla forma  di una comunità ventura. La sua lontananza dalle organizzazioni esistenti, consente d’intrattenere relazioni con tutti: senza esclusioni. Ma le impone anche di non stringere legami con alcuno: senza eccezioni. Più ancora che l’accordo sui temi prima menzionati (in tono volutamente assertivo per suscitare discussione), o su altri ancora, ciò che importa è la formazione di un comune sentire , di uno “sguardo” similare che si posi sulle cose. Una nuova sensibilità critica, che sia anche una forma di serissimo divertimento, va affinata con tutti i compagni, gli amici, i curiosi, gli irrequieti, che lo desiderino. Questa sensibilità affiatata prepara il momento, forse prossimo, in cui ricominciare a essere realisti . Ben sapendo che realismo, oggi, significa saper pensare in modo paradossale ed estremo. Che attenersi ai fatti, richiede un’immaginazione fuor di misura. (senza data ma 1989) Paolo Virno (1952) è stato un militante rivoluzionario e ora si occupa di filosofia. Fu detenuto per quattro anni (e poi assolto) in occasione del processo contro «autonomia operaia». È stato docente di filosofia del linguaggio presso l’Università Roma Tre, tra i suoi saggi figurano: Dell’impotenza (2021); Avere (2020); Saggio sulla negazione  (2013), entrambi per Bollati Boringhieri. Con DeriveApprodi ha pubblicato: Grammatica della moltitudine  (2014) e Convenzione e materialismo  (2010). Ha, inoltre, tradotto e curato l’edizione italiana di L’individuazione psichica e collettiva  di Gilbert Simondon (DeriveApprodi, 2021 per la nuova edizione).

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    Forme di espressione e di comunicazione scritta dei militanti politici della sinistra extraparlamentare Révolution essentielle , serigrafia in rosso e nero, mm 450x665 In questo testo pubblicato nel libro Il sessantotto. La stagione dei movimenti (1960-1979) , a cura della redazione di Materiali per una nuova sinistra , Edizioni Associate, 1988, si elencano e descrivono una serie di strumenti di propaganda e formazione politica utilizzati dai militanti della cosiddetta Nuova sinistra, prevalentemente extraparlamentare, nel corso dei decenni Sessanta e Settanta del secolo scorso. La propaganda murale   Dazebao Manifesto scritto a mano a grossi caratteri con una penna a spirito. I dazebao comparvero per la prima volta a Pechino durante la rivoluzione culturale cinese (la libertà di affiggere dazebao fu addirittura codificata dalla costituzione del 1975) e l’esempio venne ben presto imitato dai movimenti studenteschi europei. Questo mezzo, per la sua economicità e per la rapidità di esecuzione (ma anche per la sua caratteristica di riproduzione in poche copie di uno stesso testo) si rivelò particolarmente adatto per comunicazioni all’interno di un ambiente chiuso (una facoltà, un liceo, una fabbrica), consentendo di intervenire con tempestività sia su avvenimenti di stretto interesse della comunità interessata (la sospensione di un attivista del movimento, l’invito a un’assemblea, la contestazione di un provvedimento, ecc.) favorendo un’immediata mobilitazione.   Eliografia Rudimentale processo fotografico che permette di stampare un numero limitato di copie (20 o 30 normalmente) particolarmente adatto per mostre fotografiche o per manifesti con qualche illustrazione.   Serigrafia Processo di stampa ottenuto impressionando precedentemente una tela di seta – fissata poi su un telaio – e facendovi passare un rullo o una spatola inchiostrati. La serigrafia è particolarmente adatta a manifesti con disegni anche a colori ma solo se a campi netti (in serigrafia, infatti, si opera con inchiostri coprenti che escludono la possibilità di sfumature per sovrapposizione).   Manifesti murali stampati Mezzo classico di propaganda universalmente adottato; usato tuttavia con notevole parsimonia dall’estrema sinistra (in particolare fino al 1972-73) sia per ragioni economiche, sia per i tempi di esecuzione in tipografia che non favorivano un intervento particolarmente tempestivo.   Scritte murali Altra forma di propaganda molto antica e diffusa (usata in particolare dal Partico comunista italiano negli anni Cinquanta). Nel caso dell’estrema sinistra questa forma di espressione subisce una evoluzione grazie alla comparsa delle bombolette di vernice a spray. A differenza delle scritte a vernice con pennello, infatti, questo mezzo permette una rapidità molto maggiore, diminuendo il rischio di incontri sgraditi (una «volante» della Ps o un gruppo di fascisti) e moltiplicando la possibilità di fare più scritte. Si tratta di una forma di propaganda usata spessissimo dai «gruppi» anche a scopi concorrenziali (un gruppo poco numeroso ma dotato di un buon grado di militanza poteva ottenere in breve una vasta notorietà riempiendo i muri prossimi a posti di passaggio: stazioni, facoltà, uffici pubblici). Talvolta le scritte venivano eseguite con stampi di legno traforato che permettevano di eseguire simboli o sagome stilizzate. Il linguaggio delle scritte, per le ragioni di tempo accennate, andò facendosi via via più contratto e criptico perdendo così gran parte della propria efficacia propagandistica.   Murales Evoluzione particolarmente raffinata delle scritte murali ereditata dall’esperienza del Cile di Unidad Popular e importate in Italia verso il 1974-75. Si tratta di grandi disegni murali con sagome stilizzate e a colori a campi netti (come per la serigrafia). In casi non infrequenti si tratta di opere di buona fattura, e anche per questo, in diverse situazioni, sono restate per diverso tempo.   Forme di espressione scritta non murale   Volantini Il più classico degli strumenti di propaganda usato massicciamente dalla Nuova sinistra. A differenza del classico volantino stampato del Pci o dei sindacati, il volantino della Nuova sinistra è, nella stragrande maggioranza dei casi, ciclostilato (Pci e sindacati adotteranno il ciclostile solo più tardi e spesso per reggere il livello di produzione dei gruppi). Le ragioni della preferenza per il ciclostile sono identiche a quelle per i dazebao: minor costo e grande velocità di realizzazione. Inizialmente i volantini erano prodotti con matrici a battitura diretta e con ciclostile a mano, successivamente comparve il ciclostile elettrico e la matrice elettronica con la quale era possibile riprodurre anche disegni o foto (ma solo se molto contrastate). Il volantinaggio avveniva rigorosamente «a mano»: le risorse economiche limitate escludevano lanci di volantini da auto, come nel caso della pubblicità commerciale o di comizi di grandi partiti. Le forme clandestine di volantinaggio, ancora in uso presso il Pci negli anni Cinquanta (ad esempio abbandonare i volantini in un tram o in un bagno, oppure bagnare leggermente i volantini e sistemarli in un punto di passaggio di aria calda in modo che, lentamente, si sfogliassero da soli spargendosi intorno, forma ideale in un cinema o teatro) erano quasi inesistenti nella Nuova sinistra essendo riservate solo per casi particolari come volantinaggi a militari, dove esisteva un’esigenza di tutela da una possibile repressione. Peraltro il volantinaggio a mano offriva la possibilità di avviare il contatto con uno studente o un operaio della scuola o fabbrica interessata dal volantinaggio e nella quale non ci fossero propri militanti.   Bollettini Il più delle volte ciclostilati (spesso a matrice elettronica, quindi con disegni, vignette, foto e titoli a caratteri tipografici realizzati con trasferibili e decalcomanie). Normalmente il mezzo di comunicazione più «impegnativo» di collettivi, Comitati unitari di base o altri organismi similari, più raramente di gruppi politici. Assolvevano anche a una funzione di autofinanziamento. Molto più tardi divennero le pubblicazioni di centri di documentazione più o meno specializzati, spedite per posta e stampate spesso in offset.   Libri bianchi, schede, vademecum, controguide, ecc. Forme similari di pubblicazioni il più delle volte ciclostilate e a carattere monografico. Frequentissime le controguide di facoltà curate da singoli collettivi, le guide del Soccorso Rosso o di collettivi di giuristi, per l’autodifesa dei militanti di fronte alla polizia, le guide per i militari di leva a cura dei Proletari in divisa o dei CMCM, i libri bianchi scritti in occasione di un’occupazione di case o di una lotta di fabbrica, ecc. Meno frequenti le schede ciclostilate e raccolte in cartelline.   Lettere o samizdat L’espressione russa samizdat significa «stampato in proprio». Lettere ciclostilate e anonime inviate per posta a un indirizzario prescelto. Questa forma di espressione è tipica di gruppi entristi nel Pci («Nuova Unità » prima serie, «Dialettica Interna» o, in Francia, «Unir Debàt», ecc.), per i quali  l’anonimato era rigorosamente necessario onde evitare espulsioni. Tale forma di comunicazione non compare presso altri gruppi, neppure presso gruppi armatisti.   Giornali di agitazione Il modello ideale cui tutti questi giornali si ispiravano è quello dell’«Iskra» di Lenin: un giornale che sia insieme veicolo di propaganda, agitazione ed elaborazione teorica. Spesso in formato tabloid (allora poco usato), più raramente nel formato «lenzuolo»: grafica spoglia (poche foto, nessun colore a eccezione, qualche volta, per la testata, composizione in corpo 8 o 9, e una interlinea semplice, nessuno spazio bianco, nessuna cura nell’assortimento dei caratteri tipografici adoperati), linguaggio perentorio, poco incline a dubbi e problematizzazioni, spesso con titoli ricavati da slogan in voga. Non di rado, accanto al notiziario delle lotte (naturalmente in primo luogo quelle che vedono il gruppo, di cui il giornale è organo, in posizione egemone) e a brevi editoriali, comparivano ponderosi documenti o saggi teorici. Gli articoli erano normalmente non firmati o solo siglati con le iniziali. Assente il dibattito interno: il giornale era pensato solo come strumento di propaganda esterna e di orientamento dei propri militanti e simpatizzanti; rare le «lettere al direttore» o simili. La gran parte delle copie veniva venduta tramite diffusione militante, una quota modesta attraverso il reticolo delle librerie legate al movimento, rarissima la distribuzione in edicola (a parte i settimanali). In qualche caso la diffusione del giornale contribuiva all’autofinanziamento, più spesso rappresentava un passivo da colmare. Nella maggior parte dei casi il giornale di agitazione era organo di qualche piccolo partito o gruppo politico essendo ben pochi gli organismi di base in grado di poter editare un giornale stampato.   Riviste A eminente scopo di dibattito teorico, spesso indipendenti, in diversi casi organo teorico di qualche gruppo, quasi mai prodotte da organismi di base. In comune con i giornali di agitazione l’austerità della grafica appena poco più curata (comunque assenti foto, colori, ecc., unica concessione per la copertina spesso colorata o con qualche illustrazione). Normalmente avevano le dimensioni di un libro, ma non era infrequente il formato «protocollo» che consentiva, in qualche caso, di utilizzare anche la prima e la quarta di copertina per gli articoli. Eccetto pochi casi tirature ridottissime. Nonostante l’ispirazione generale del ’68 (politicizzare ogni persona, fare di ogni studente od operaio un militante con un sufficiente livello di preparazione politica) le riviste restarono lo strumento di una parte esigua del movimento, favorendo in qualche modo la riproposizione della divisione sociale del lavoro nei gruppi e dunque delle stratificazioni gerarchiche negate: la loro lettura riguardò sempre più il quadro intermedio dei gruppi e gli intellettuali «battitori liberi»; la base militante rispose poco a questo tipo di offerta culturale e anche su questo scarto fu possibile costruire i molti dirigenti primitivamente contestati. Nel complesso tuttavia restarono la sede privilegiata dell’elaborazione teorica della Nuova sinistra. La gran parte della produzione culturale di quegli anni venne proposta attraverso questo strumento: il più sofisticato fra quanti potesse permettersi un movimento di piccoli gruppi escluso dai circuiti dell’industria culturale.   Quotidiani Comparvero abbastanza tardi sulla scena, divenendo poi dei formidabili strumenti di affermazione egemonica da parte dei gruppi in grado di editarli. Solo con la comparsa dei quotidiani emerse netta la distinzione fra gruppi maggiori e a dimensione nazionale e gruppi minori destinati a orbitare nella sfera dell’uno o dell’altro. Peraltro i quotidiani assolsero anche a un’altra funzione eminentemente interna: proprio i gruppi maggiori (quelli che daranno vita alla «triplice») erano andati formandosi attraverso successive fusioni e assorbimenti di gruppi locali, non di rado di estrazione ideologica assai distante; tutto ciò aveva prodotto una situazione di grande difformità per linguaggio, cultura, pratica politica fra le varie situazioni locali. I quotidiani agirono da elemento omogeneizzatore riuscendo a contrastare efficacemente sia la forte eterogeneità dei singoli gruppi (che in una certa misura risultarono conformati agli orientamenti dei propri gruppi dirigenti), sia la tendenza alle frequenti scissioni (uscire da un gruppo nazionale del genere voleva dire tagliarsi fuori da un circuito articolato che solo molto difficilmente si sarebbe potuto sostituire). Molto importante è poi la funzione dei quotidiani nello sviluppo di una pratica politica come la controinformazione. Dopo alcune inchieste-tipo come «La strage di stato» la controinformazione conobbe uno sviluppo molto forte attraverso la pubblicazione di inchieste locali, su casi «minori», schede su personaggi politici o imprenditoriali, ecc. il cui canale fu quello dei quotidiani. Meno rilevante, ma non trascurabile, il ruolo culturale dei quotidiani: soprattutto «il manifesto», ma in una certa misura anche il «Quotidiano dei Lavoratori», contribuirono ad animare dibattiti di notevole interesse su scelte di politica economica come su film o libri di particolare successo. In qualche modo i quotidiani assolsero anche al ruolo di far avvicinare il grande pubblico alla Nuova sinistra, uscendo dai consueti ambienti operai e studenteschi: forme di lotta come l’autoriduzione o campagne nazionali come quelle sul Cile non sarebbero state possibili (o sarebbero state ben altra cosa) senza lo strumento dei quotidiani che permettevano di raggiungere gruppi sociali o zone geografiche sino ad allora distanti dalla Nuova sinistra.   Attività editoriali Nell’area della Nuova sinistra è possibile contare in quegli anni fino a una decina di case editrici nazionali, alcune delle quali con una produzione anche superiore ai 40-50 titoli annui. Quasi tutte indipendenti, in rarissimi casi legate a qualche gruppo, furono il naturale complemento delle riviste, dei quotidiani e della rete di librerie del movimento nella formazione di quel circuito alternativo all’industria editoriale ufficiale. La loro nascita fu in larga parte determinata dall’assoluta impossibilità, per gli autori e i movimenti della Nuova sinistra, di accedere al circuito delle grandi case editrici. Il massimo sviluppo di questa rete si ebbe tra il ’74 e il ’79. Anche in questo caso è possibile rinvenire una fetta cospicua della produzione culturale dell’estrema sinistra. Dai libri inchiesta della controinformazione, alla ripubblicazione di classici del pensiero socialista e anarchico, dai saggi storici alle inchieste urbanistiche, dalla documentazione internazionale alla produzione di una letteratura alternativa ispirata dal movimento di quegli anni. La lettura dei cataloghi cronologici di queste case editrici è perciò uno strumento indispensabile per capire l’evoluzione culturale dell’intera area della Nuova sinistra.   Mostre Altra forma di espressione molto ricorrente in quegli anni furono le mostre fotografiche. Le più artigianali erano ottenute incollando su grandi fogli di carta le foto ritagliate dai rotocalchi aggiungendovi scritte a mano esplicative; le più curate erano realizzate con lo stesso procedimento e poi eliografate. Usate in particolare per campagne internazionali (dal Viet-Nam al Cile), venivano spesso usate durante comizi o feste.

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