116 risultati trovati con una ricerca vuota
- selfie da zemrude
Oltre il giardino # 1: Il cinema come volontà di rappresentazione Andrea Wöhr e Peter H.Vogel Il saggio riflette criticamente sullo stato attuale del linguaggio cinematografico e audiovisivo, denunciando una deriva verso un’estetica dell’anestesia e della neutralizzazione del conflitto. In un contesto dominato da algoritmi e mercato, il cinema tende oggi a lisciare le fratture, a evitare lo strappo, e a produrre senso preconfezionato, disinnescando ogni tensione. Il montaggio, un tempo luogo di crisi e pensiero, è ora solo continuità. Tuttavia, sopravvive una contro-estetica marginale, frammentaria, che abita la soglia, rompe il flusso e interroga ancora il presente. Non nei grandi film, ma in spazi liminali – cineforum digitali, newsletter, microcomunità – si cerca di riattivare un rapporto vivo con l’immagine, capace di generare nuove domande collettive. Il testo chiude con un invito: non a rifondare il cinema, ma a ridefinire lo sguardo, il gesto, l’intenzione, affinché l’immagine torni a essere atto condiviso, simbolico, intensamente presente. Questo articolo fa parte della rubrica <> curata da Franco Bocca Gelsi C’è una zona d’ombra nel logos dell’immaginario poetico dell’audiovisivo moderno che sta sotto la soglia della visibilità, sotto la soglia dell’urgenza. È quella parte di immaginario che non grida, non denuncia, non si offre come contenuto, ma pulsa: come un infrasuono del non detto, come una termoregolazione simbolica che mantiene ogni forma narrativa entro limiti accettabili di calore. Non esplode, non deflagra, niente. Il senso è temperato, la visione è raffreddata con cura. Le fratture si suturano in automatico, le contraddizioni si dissolvono in estetica, la tensione si attenua prima ancora di nascere. Questo regime di immagini non sembra nemmeno più il prodotto di una volontà esterna. La narrazione si è autocostruita per non urtare, per scorrere fluidamente, per rassicurare, per consolare come un algoritmo emotivo di superficie. Il potere simbolico non vieta, attenua, non impone, regola, non urla: modula. Eppure, da qualche parte qualcosa scarta ancora dal flusso.Un’estetica molecolare, fatta di frammenti affettivi, gesti minimi, vibrazioni laterali, continua a disarticolare la forma dominante. Una contro-semiosi che non conferma, non vive nel flusso centrale, nella narrazione condivisa, nella sintassi dell’approvazione; è un détournement lento, quasi inavvertibile, ma ostinato, un battito fuori campo, un gesto fuori asse, un non-allineamento semantico che non si oppone, che disarma la coerenza del visibile.Un modo di abitare il linguaggio senza permesso, senza approvazione, senza share. Cinematograficamente se pensiamo al linguaggio strutturato possiamo riferirci alla Corea del Sud, dove film come Parasite , Decision to Leave , Burning riescono a lasciare ancora un segno, o pensando al cinema iraniano clandestino a Panahi o Rasoulof, dove ogni inquadratura è un détournement reale, un’immagine che non può fluire, e proprio per questo torna ad avere peso, o al cinema colombiano recente, Laura Mora, Ruiz Navia, dove il racconto non si redime, si disperde, ma non si neutralizza. In entrambi i casi, è la frattura stessa che viene abitata come linguaggio, cinema che riesce a tenere la ferita aperta, non a ricucirla, non è nostalgia del trauma, è dissonanza attiva. Una forma di racconto che non si lascia anestetizzare, che non accetta la regolazione, che non vuole fluire verso il lieto fine, non per recuperare un linguaggio perduto, ma per riattivare l’intervallo, la soglia, il margine ustionante in cui il bordo, o la marginalità torna a farsi presenza. Negli anni Venti, alcuni teorici e cineasti russi – Kulešov, Ejzenštejn, ma anche Šklovskij in filigrana – avevano cominciato a trattare il cinema non come narrazione, ma come dispositivo di pensiero.Il montaggio non era una tecnica di raccordo, ma una frizione intenzionale: un varco nella percezione ordinaria, una tensione impressa alle immagini per costringerle a rivelarsi, infatti Kulešov lo dimostrava con la giustapposizione, un volto, poi una tomba, e lo spettatore leggeva il lutto, ma non era nel volto, e nemmeno nella tomba. Il senso si generava nell’intervallo, nello scarto. Ejzenštejn andò oltre, per lui, il montaggio era il punto in cui il visibile diventava ideogramma. Non un modo per mostrare la realtà, ma per piegarla finché non ammetteva di essere costruita. Il cinema non rappresentava il mondo, lo esponeva a una prova, lo disallineava, lo sottoponeva a una crisi di senso reinventandolo, una nuova semiosi. Quel gesto, così materiale, così formale – non era estetizzante, non c’era decorazione, né compiacimento, c’era la volontà di ferire lo sguardo, di interpellarlo senza dargli risposte. Non per mostrargli la verità, ma per togliergliela da sotto i piedi. Oggi del montaggio non è scomparsa la tecnica, ma la funzione. Il montaggio non cerca più la frattura: cerca la continuità, non costruisce crisi di senso, ma le assorbe, sutura, ammorbidisce, accompagna, non interrompe più il flusso, lo regola. Oggi quella tensione non è più attiva perché è stata neutralizzata attraverso un immaginario addomesticato, afásico, televisivo. Non ha perso soltanto la voce, ha smarrito la facoltà di nominare ciò che racconta, di riconoscere ciò che accade, non riesce più a dare forma nemmeno al proprio silenzio. La sensazione, inquieta, sfuggente, è che qualcosa si sia smorzato, non c’è più lo strappo, non c’è più nemmeno la pretesa di generare materiale mitopoietico, la lingua cinematografica si è lasciata addomesticare, forse perché i temi sono stati sospinti fuori campo, ma più ancora perché il potere che plasma l’immaginario non ha più il volto della borghesia, perché la borghesia ha smesso di interrogarsi sul suo ruolo, è stata superata dal mercato stesso e inglobata nell'algoritmo finanziario. Non è più il capitale con volto umano, né il paternalismo culturale delle classi dominanti. Oggi il potere è una funzione che sta nel codice che ordina le immagini, nell’indice che detta la visibilità, nel calcolo che trasforma lo spettatore in profilo. E allora la domanda diventa: come si fa a montare nuovo senso ancora? Non a montare immagini, ma a montare discontinuità, a costruire dispositivi che non uniscano, ma disarticolino, che non pacifichino, ma sospendano il senso finché non diventa nuovamente cosa viva, corpo estraneo, linguaggio ritrovato. Il vuoto come funzione semantica C’è un vuoto, lo sentiamo, sarebbe ingenuo pensarlo come una semplice mancanza, una disattenzione collettiva o una crisi di ispirazione.Il vuoto, oggi, non è un effetto collaterale del sistema, è parte del sistema, non è lo spazio che il cinema non riesce più a colmare, semmai è la zona che deve restare vuota perché tutto ciò che è esterno al cinema continui a funzionare. Le immagini non tacciono: parlano, scorrono, si moltiplicano, ma parlano d’altro, parlano intorno, parlano senza toccare il centro, e se lo toccano lo disconoscono. E in questa proliferazione narrativa, il cuore tematico si è dissolto, non perché non ci siano storie da raccontare, ma perché ci sono troppe condizioni implicite su ciò che si può mostrare, e come. La rimozione non è censura, è pre-configurazione dell’accesso. I film non vengono vietati, semplicemente, non accadono, l’autocensura è interiorizzata per la sopravvivenza professionale. Il potere non si impone più come forza impositrice gerarchica, ma agisce come un custode del margine, flessibile, modulare, incorporato nella logica e negli stilemi narrativi che regolano il visibile, incorporato nella logica e nelle micro-forme retoriche del racconto visivo contemporaneo. Si è persa la sacralità dello sguardo indagatore a fronte di una semplificazione eccessivamente disincantata e fintamente dissacrante. Il sistema valoriale in cui siamo immersi non dice mai <>, ma orienta impercettibilmente verso l’insignificante, ecco perché certe sceneggiature o progetti non entrano nei fondi pubblici, perché non girano nei pitch di mercato, perché non attivano l’interesse delle piattaforme. E allora non esistono, e se non esistono, il mondo che avrebbero potuto far emergere resta silente, non rappresentato, e quindi sempre meno pensabile. Ciò che chiamiamo <> è una zona cieca prodotta attivamente, una zona ottimizzata dal punto di vista industriale, innocua dal punto di vista culturale, impossibile da sovvertire narrativamente senza perdere l’accesso al sistema. Non è che il vuoto non ci fosse prima, è la sua funzione che è cambiata, prima era uno spazio di attrito, una zona di rischio, qualcosa che il cinema provava ad attraversare. Oggi quel vuoto viene sigillato prima che qualcuno possa anche solo puntarci una macchina da presa, o forse nessuno riesce più a uscirne, o peggio, ci entriamo senza accorgercene, e non troviamo più niente da dire, come se tra noi e l’immagine si fosse inserita una membrana invisibile, un sistema operativo che decide in anticipo quali fratture sono compatibili, quali contraddizioni sono raccontabili, quali traumi possono diventare contenuto e quali, invece, devono restare esterni al campo simbolico. La crisi del cinema, allora, non è la crisi delle storie, ma la crisi della possibilità di produrre discontinuità semantiche. Se il linguaggio smette di fare male, il potere può dormire tranquillo, non ha più bisogno di censurare, basta che resti al centro, silenzioso, fuori fuoco. Siamo noi a renderlo invisibile, ogni volta che montiamo senza fratture, scriviamo senza frizioni, raccontiamo senza chiederci se stiamo solo omaggiando Kronos. La domanda vera è questa, cosa succede quando il cinema smette di togliere il velo e inizia a cucirlo? Non raccontiamo più per mostrare, raccontiamo per non vedere. Il cinema, oggi, non occulta, protegge. Protegge il vuoto come luogo semantico da abitare, protegge l’assenza di conflitto, anche di classe, protegge una falsa convinzione che tutto sia già stato detto, che non resti più nulla da interrogare, solo da rappresentare con cura, una sorta di nichilismo soft, travestito da finta maturità culturale disincantata, un dissenso stilizzato, civile, produttivo e finalizzato alla ricomposizione e all’eliminazione del conflitto visto come forma infantile e ribelle, quindi un’omologazione perfettamente funzionale al potere. Quindi cosa stiamo davvero proteggendo? Estetica dell’anestesia: la forma come neutralizzazione Nel vuoto che abbiamo cominciato a descrivere, un vuoto attivo, funzionale, sistemico, qualcosa è però subentrato, non è il silenzio, non è il buio, è la pienezza. Film che filano lisci come codice ottimizzato, trame che incrociano linee temporali, dispositivi, identità. Regie che giocano con il tempo, con il corpo, con il fuori campo, tutto è a posto, ben confezionato, ritmato, vendibile; eppure nulla rimane. Come se l’immagine fosse stata riempita non per dire di più, ma per neutralizzare il vuoto, uno spazio che non deve essere riempito con domande, urgenze, riflesioni, come se la forma fosse diventata una capsula sensoriale, levigata, autoreferenziale, autoconclusiva. Non è formalismo, è <> percettiva. Non è ricerca è ricorsività algoritmica, lo spettatore ama ciò che ha già visto, e lo rivede con una variazione del 3%, ogni frame promette qualcosa, ma niente sposta davvero l’asse. E in questo eccesso di senso (fabbricato, calibrato, profilato), si compie una delle operazioni più sofisticate del nuovo potere; non vietare nulla, ma soffocare tutto nel visibile.Nessun contenuto è proibito, ma tutti vengono pre-digeriti.Un film può parlare di guerra, di fine del mondo, di apocalisse sociale, ma lo farà senza dissonanza, senza rischio semantico, senza generare cortocircuito. Il risultato è un paradosso, estrema ricchezza formale, estrema povertà percettiva. Il cinema italiano, salvo rare eccezioni che non fanno massa, sembra vivere pienamente questo scollamento.Si muove dentro una grammatica post-borghese, non più legata alla rappresentazione della società o al dramma dell’individuo moderno, ma del rampollo che non trova uno spazio nel mondo senza interrogassi ne su quale debba esser il mondo ne perché lui dovrebbe avere uno spazio, soprattutto senza essere mai nemmeno veramente pop, né veramente sperimentale. Piuttosto una superficie mid-level, fluida, educata, che non disturba né interroga, e che per questo risulta perfettamente funzionale a ciò che il potere semantico contemporaneo richiede. Oggi il potere non cerca più l’egemonia culturale, cerca l’abbassamento del livello di soglia. Vuole che si guardi tutto, purché niente ci riguardi davvero. Il montaggio, un tempo, faceva inciampare, oggi ricuce, liscia, chiude. Lo spettatore non viene più convocato, ma accompagnato, e in questo accompagnamento, in questo <>, si gioca la grande scommessa dell’anestesia estetica, un’arte che non disturba, un’immagine che non devia, un cinema che ha smesso di chiedere <> e ha cominciato a chiedere soltanto <>. Le sopravvivenze minime: dove ancora si pensa guardando Se tutto sembra anestetizzato, se il cinema industriale non ferisce più e quello d’autore spesso non osa oltre la rottura programmata in cerca di visibilità, resta da chiedersi dove si sia rifugiato lo sguardo vivo. Non lo sguardo esperto dei critici polverosi da cineteca chiusa per inattività, non lo sguardo colto troppo colto, nemmeno lo sguardo radicale all’osso e oltre. Ma lo sguardo che cerca ancora di trasformare la visione in una domanda collettiva popolare nel senso gramsciano o pasoliniano del termine. Forse non si è rifugiato, si è naturalmente ritirato, sottratto, riformulato altrove. Fuori dalla sala, fuori dai festival, fuori dalla liturgia della critica, in luoghi più intermittenti, meno istituzionali, più banali apparentemente. Vive in attesa di nuove rotture, cercando di generare un proprio codice nei gruppi Telegram, nei blog che sopravvivono a bassa frequenza, nelle rassegne senza glamour, nei cineforum digitali, nelle newsletter che sparano nel buio e parlano a duecento, forse trenta persone. E perfino nei filmati auto-celebrativi di TikTok e Instagram: banali, ripetitivi, ma forse, in qualche modo, sottratti allo sguardo censorio del liminale. Non si tratta di eroismo, né di qualche strana mitologia della resistenza. È solo un gesto quotidiano che continua a scorrere sotto traccia, che insiste anche quando sembra inutile, una forma minima di prossimità che, ogni tanto, fa ancora la cosa più semplice, condividere qualcosa insieme, fosse anche solo il tormentone del momento. Non sono comunità, almeno non nel senso pieno, sono microclimi simbolici, fili di senso che si tengono solo se qualcuno li tiene. Nessuna legittimazione culturale, nessuna spinta algoritmica se non l’assonanza che ti porta a visualizzare sempre gli stessi contenuti, ( che non è poco mi rendo conto) ma, ogni tanto, accade qualcosa, una conversazione attorno a un film che non funziona ma dice, una visione condivisa non in streaming, ma in simultaneità emotiva, una recensione che non spiega il film, ma apre un varco dentro chi l’ha letta. Qui sopravvive qualcosa che assomiglia a un’ecologia della visione, non tanto uno spazio alternativo, quanto un diverso rapporto con le immagini, non più contenuto da consumare, ma incontro da abitare, seppur ripetitivo, disorganico, sbilenco, nevrotico nel proprio isolamento da dispositivo auto-consolatorio, auto-affermativo, auto-narrante, auto-algoritmico, e proprio per questo, non ancora disattivato, creduto dismetabolizzato. Non si tratta di nostalgia, questi spazi non sono migliori, né più puri, ma non sono ancora completamente integrati, stanno a metà, sono il purgatorio semantico dell’audiovisivo popolar-populista, tra il nerd e il pop, tra lo specialista e l’ossessivo, tra il dispersivo e il ritualistico. Ed è proprio questa ambivalenza a renderli fertili, e non sappiamo se da qui nascerà un nuovo linguaggio, ma è qui che il linguaggio, oggi, si interroga ancora su di sé, e seppur senza coscienza, è proprio qui che si produce, in modo confuso, fragile, a bassa definizione, quella funzione critica dell’immagine che il mercato non sa più generare, e il potere preferirebbe non dover disinnescare. Soglia aperta: che fare con le immagini, adesso Non si tratta di concludere, un pensiero critico che si rispetti non tira mai le somme, circoscrive il campo dell’analisi, solo per scoprire cosa resta fuori. E ciò che resta fuori, oggi, è proprio la domanda su cosa possiamo fare, ancora, di nuovo, diversamente con le immagini e l’immaginario. Non l’industria, non le piattaforme, non il feticcio della qualità, del campionato del botteghino o del desueto passeggiare su un tappeto rosso in cerca di scatti auto-celebrativi, ma l’immagine come atto collettivo possibile e condivisibile, come frammento di senso che non si lascia chiudere, che chiede risposta, che apre a nuovi legami, una nuova alchimia delle immagini e dell’immaginario. Perché se abbiamo attraversato un vuoto riconoscendo che è funzionale, se ne abbiamo visto il rivestimento estetico e anestetico, e se ne abbiamo intravisto gli spazi in cui qualcosa sopravvive, allora non ci resta che interrogarci su quale gesto può riattivare il cinema come spazio di soglia. Il gesto non è necessariamente produttivo, non è <>, né <>. Il gesto può essere guardare in altro modo, scrivere diversamente, tacere dove tutti parlano, inquadrare dove nessuno guarda.Il gesto è una piccola sabotatura del flusso, una deviazione nel campo del visibile, una faglia dentro l’evidenza, la vera questione da porre non è più dove si guarda, ma con chi si sogna.Non in senso lirico, ma ontologicamente politico; esiste ancora una sfera simbolica condivisa?Un campo in cui la visione non sia solo esperienza individuale, ma riconoscimento reciproco, possibilità di coesistenza e tensione vettoriale. Alla fine del secolo scorso, il cinema affrontava la questione chiedendosi se la coscienza del mondo potesse essere una coscienza di classe, soprattutto quello italiano, ma oggi quella domanda sembra evaporata, non perché sia stata superata, piuttosto perché non sappiamo più dove collocarla. Come se il cinema, travolto dalla fine delle ideologie ma ancora di più dal crollo dell’idealità sostituita dall’edonismo, dalla personalizzazione, dalla profilazione, dalla neutralizzazione algoritmica, non potesse più interrogare il mondo, se non dentro i limiti imposti dal codice che lo struttura. Eppure qualcosa continua a deviare sotto soglia, forse non più nel cinema come apparato, forse nel gesto che lo sfiora, che lo disarma, che lo riattiva in altra forma. Scrivere, parlare, discutere, mostrare, non per ripetere l’estetica della frattura, ma per ritrovare un’intensità del presente che non sia né nostalgica né digitale, ma incarnata, condivisa, frammentata, reale. Non si tratta di correggere il mondo attraverso il cinema, ma di incontrarlo ancora, dentro uno specchio deformato o deformante, che proprio perché imperfetto riesce, a volte, a riflettere ciò che non vogliamo vedere. L’audiovisivo non va purificato, né rifondato, va rifocalizzato. Come una lente troppo satura, che ha bisogno di un filtro nuovo, non per selezionare, ma per trattenere ciò che può ancora precipitare in senso semantico, depositarsi, condensarsi, opporsi alla trasparenza vacua del superficiale travestito da senso civico e finta retorica epico istituzionale. Non rigettiamo il genere, il codice, la forma, chiediamo però alle immagini di aprire spazio, di costruire contenitori tridimensionali in cui l’immagine non scorra, ma si comprima, si rifranga, torni a pensare e pesare, come in un filtro polarizzante sul tempo che lasci passare solo ciò che brucia abbastanza da farsi memoria iconografica, impronta. Franco Bocca Gelsi è un produttore cinematografico e di documentari. E’ diplomato E.A.V.E. ed Eurodoc, networks Internazionali di Europa Creativa. Svolge principalmente il ruolo di Creative Producer seguendo gli sviluppi dei progetti, di cui per alcuni è anche co-autore della sceneggiatura. Tra i film più famosi prodotti ci sono Fame Chimica , L'Estate d'Inverno , Fuga dal Call Center , La Festa , Blind Maze , e in post-produzione Rumore e Gli Assenti . Tra i documentari, L’importanza di essere scomodo - Gualtiero Jacopetti , Linea Rossa , La via del Ring , l’Ultimo Pastore , Treno di Parole , La Nuova Scuola Genovese e in preparazione E’ la vita che sogna . Ha insegnato in diverse scuole di cinema tra cui civica scuola Luchino Visconti di Milano, Centro Sperimentale Lombardo, N.AB.A., IULM, Accademia 09. E’ ideatore, e membro del comitato scientifico, dell’Alta Scuola per la Serialità Ecipa/CNA. Si occupa di Alta Formazione per professionisti del mondo dell’Audiovisivo. E' stato tra i primi italiani soci dell’ European Producer Club , membro dell ’European Film Academy , e fondatore di CNA Cinema e Audiovisivo, di cui è Presidente della sessione Milano Lombardia.
- exlet
La G di Giovenale: Statue linee Dominique Evrard Statue linee di Marco Giovenale, analizzato da Gian Luca Picconi, è un esempio di « prosa in prosa » che decostruisce la rappresentazione letteraria attraverso ironia, autocontraddizione e linguaggio minimo. L’opera mette in crisi i confini tra letterario e non-letterario, linguaggio e metalinguaggio, rivelando la natura politica e antimercantile della scrittura sperimentale. In un frammento dedicato alla prosa in prosa, Jean-Marie Gleize utilizza, per caratterizzare questo fenomeno, l’aggettivo antirappresentativo . Ora, in che senso la prosa in prosa può essere considerata antirappresentativa? Per dare una risposta a questa domanda, proviamo a prendere in esame un’opera come Statue linee , di Marco Giovenale. Fin dal titolo, il libro giustappone, senza virgole, dimensioni estetiche incompossibili: il riferimento alle linee riporta infatti a un paradigma bidimensionale, contraddetto dalla tridimensionalità della rappresentazione statuaria. Ma l’assenza di coesione del titolo è anche figlia di un refuso, poi promosso a chiave d’accesso comica: Statue li g nee. In questo senso non si può dire che la possibilità della rappresentazione sia assente, ma piuttosto che sia posta in crisi attraverso strategie antinomiche. Per meglio individuare alcune di queste strategie, conviene citare integralmente almeno uno dei brevi testi che compongono la silloge: «questa prosa non contiene glutine, può essere mangiata e digerita agevolmente da persona intollerante al glutine, non contiene poesie, è una prosa, si è già premesso, è anche senza lattosio e senza lieviti, così non può crescere più di tanto, e non contiene soia né tracce di frutta a guscio, né arachidi né olio, né burro di arachidi, è completamente libera da olio di palma, frumento, farro, miglio, avena, brassicacee, riso, non ci sono fave, chi è malato di favismo può stare tranquillo, questa prosa è senza parabeni, non è assolutamente insolubile, si scioglie in un momento, tuttavia è insolvente, non paga, non può pagare, non ha i soldi, è rettangolarmente povera, fatta con mezzi molto poveri, può essere esposta all’acqua, anche al sole, non scotta, può essere toccata anche senza guanti perché non sporca, non va in giro per casa lasciando inopportuni escrementi, neanche fuori casa, questa prosa è capace di grande ritegno addirittura ritenzione così non emette liquidi, non contiene elementi radioattivi o infiammabili, questa prosa è semplice, non contiene complessità, non ha in mente alcuna complessità, non ha mente, non pensa, non contiene, in assoluto, non ha un contenuto» In questo esempio di parlar disgiunto e oratio soluta , l’autore presenta una sequenza di asserti giustapposti tali che definirebbero, in una chiave parodicamente metatestuale, i caratteri precipui del testo stesso. È indubbiamente significativo che anche un autore di per sé allergico alla metatestualità ne fornisca un campione così evidente. L’operazione consiste nell’attribuire alla prosa una serie di prerogative normalmente connesse con l’etichettatura dei prodotti alimentari. Nella conclusione, la evidente irrelatezza dei predicati di natura commerciale che vengono attribuiti alla prosa (quasi tutti significativamente espressi in forma negativa) torna, ancora metatestualmente, a trovare una sua forma di coerenza: «questa prosa è semplice, non contiene complessità, non ha in mente alcuna complessità, non ha mente, non pensa, non contiene, in assoluto, non ha un contenuto». Ma questa coerenza, in forza di una serie ulteriore di slittamenti semantici, per una deriva letteralista, sprofonda il testo nuovamente in una serie di contraddizioni che lo rendono nonsensical . Risultano infatti equiparate le caratteristiche che devono contrassegnare il cibo per poterlo vendere a un certo pubblico di consumatori, e quelle che deve avere la prosa di ricerca per poter attivare l’interesse del proprio pubblico di fruitori. Ecco che la metatestualità confluisce in questo testo autorizzata dalla sua funzione comica. Che il comico e l’(auto)ironico rivestano un ruolo non di secondo piano nel libro, è cosa evidente e insieme da discutere. Che significato (anche politico) ha, infatti, questa curiosa operazione comica e autoironica? La prima cosa che si potrebbe dire, è che in un’opera caratterizzata da un apparentemente debole livello di organizzazione macrotestuale, l’elemento comico realizzato attraverso una gamma disparata di incoerenze e inappropriatezze, fa sì che Statue linee possa comunque essere letto come una totalità di senso. Giovenale gioca non solo a lenire i confini tra oggetto letterario e oggetto non letterario, intervenendo a modificare gli elementi che consentono la distinzione tra i due oggetti; riduce anche o trasforma le modalità di delibazione dello statuto aletico dell’opera, attraverso l’ostensione di autocontraddizioni che l’ironia non basta a riscattare completamente: è l’applicazione di questa strategie lungo tutto il libro a conferirgli una sua consistenza macrotestuale. Ma se l’autore di un testo che si confronta indubbiamente con l’orizzonte d’attesa della poesia si rivela autocontraddittorio, se l’opera dunque non contiene una sua verità lirica, questo è evidentemente un atto politico, anche perché ciò che si sottolinea è la natura mercantilistica, solo finzionalmente disinteressata, della poesia. Questa critica viene espressa non su un piano di immediata assertività, quanto su un piano di costruzione testuale, e quindi a livello metapoetico. È quindi probabilmente in questa dimensione dell’autocontraddizione che si annida la antirappresentatività del libro di Giovenale: si tratta di un libro che rinuncia a curare gli assi cartesiani della testualità, ossia coesione e coerenza; ma – in modo uguale e contrario – è d’altro canto la sua successione di microelementi di incoerenza, situabili a livello di ogni singola prosa, a dare una sorta di coerenza (e quindi di chiusura) al libro. Il che significa che il volume di Giovenale ha per lo meno il non piccolo merito di farci scoprire che, in qualche modo, la coerenza e la coesione non sono nient’altro che una forma della clôture . Ma non si tratta solo di questo. È soprattutto questa clôture recuperata a forza di infrazioni alle regole che consente, in combinazione con l’ampia instabilità nell’uso delle persone dell’enunciazione, la proiezione di simulacri di soggettività: ed è proprio nella produzione di soggettività che il testo si rivela rappresentativo. Clôture e intenzionalità sono strettamente legati all’idea di rappresentazione. Ma la rappresentazione viene messa in crisi e insieme continuamente riattivata dagli effetti di slittamento nell’autocontraddizione che l’autore dissemina nel testo. Questa tecnica dello slittamento torna anche nel seguente frammento: « Marco Giovenale scrive testi che non li capiscono. Vede dei video su youtube e dicono che sono lo stesso, ma non sono lo stesso. Non lo credete. Se vedo un video lo capisco, se vedo Giovenale non lo capisco. Se lo leggo. Scrive che tutti fanno su twitter ma se io faccio twitter lo ascolto e lo capisco, ma Giovenale io non lo capisco. Scrive delle parole astruse nei libri, ma anche le parole semplici non si capiscono, e questo è un modo speciale di scrivere che ha lui. Anche quando parla non si capiscono. Allora sono andato da Marco Giovenale e gli ho detto: Marco Giovenale, volevo sapere, ma perché parli così? Lui non ha capito la mia domanda, allora finalmente siamo pari » Naturalmente, l’elemento di scarto in cui ci si imbatte dapprima è l’uso incoerente del plurale. Ma la sua vera spina dorsale è il riferimento alla figura autoriale da parte di una piattaforma enunciativa che si rivela ideologicamente a lui contraria. Proprio da questo – ossia dal fatto che la piattaforma enunciativa proietta come simulacro di soggettività la voce di un detrattore dell’autore – consegue un testo dal marcato carattere comico. La temperatura comica – una proprietà del testo, si direbbe, intensiva – è tutta data da singoli elementi continuamente rilevabili, di cui la boutade finale – «siamo pari» –, orchestrata secondo la tecnica classica del fulmen in clausula , mentre ritornando sul verbo « capire » dà forma a una Ringkomposition , costituisce la divisa che si riverbera mnesticamente su tutto il resto del testo. Si può poi ravvisare nell’impasto lessicale uno degli elementi cruciali di unitarietà del volume: lessemi da italiano dell’uso medio e strutture che linguisticamente tendono all’oralità producono una sensazione totalizzante di grado zero del linguaggio. Questa sensazione di un grado zero – che non è la stessa cosa di una tabula rasa – pare giustificare – comicamente – l’andamento autocontraddittorio del libro. Il lettore, nel riconoscere gli effetti di intenzionalità di questo dispositivo, giustifica allora in base a principi che trascendono la compagine testuale, le infrazioni alla coerenza individuabili nel testo. Quello che il buon vecchio Garroni chiamava «costellazioni semantiche primitive» qui produce, anziché i più consueti effetti emotivi di identificazione, disidentificazioni comiche a mezzo di minime incoerenze, anche e soprattutto per l’uso di lessemi che non sono collocabili nella tradizione del testo lirico. Del resto, l’unico problema di ogni linguaggio poetico è la determinazione della sua separatezza rispetto al linguaggio fattuale. Ma questa separatezza può essere di due tipi: per intensificazione, o per deintensificazione; e, ovviamente, alla deintensificazione segue la disidentificazione. Qui, pare prodursi seguendo il principio dettato dal suffisso de- , inducendo il fruitore al riadattamento continuo delle proprie metarappresentazioni. Il grado zero, in questo modo, come forma primitiva di straniamento, produce un effetto ulteriore: la continua trasformazione del linguaggio in metalinguaggio, o, per dir meglio, un lavoro costante di messa in rilievo della funzione metalinguistica anche quando risulta in qualche modo implicita. L’idea di rappresentazione che in qualche modo è postulata all’interno di questa prosa, attraverso una piattaforma di enunciazione che promuove l’idea di un locutore polemico con l’autore, l’idea di personaggi, una struttura potenzialmente finzionale dai confini chiusi, viene appunto messa in crisi attraverso l’ embedding del metalinguaggio. Grado zero più metalinguaggio però, cosa produce? Si direbbe che la piattaforma pragmatico-enunciativa allestita dalla prosa in prosa produca non solo la trasformazione ma l’identificazione di funzione poetica e funzione metalinguistica (per usare le ben note categorie jakobsoniane), la neutralizzazione della loro differenza. È allora in questo senso che si realizza la crisi della dimensione rappresentazionale del testo: nell’indistinzione tra letterario e non-letterario combinata con l’indistinzione tra linguaggio e metalinguaggio. Di questo grado zero dell’espressività, della finzionalità, della rappresentazionalità, di questa distruzione dei confini tra linguaggio poetico e metalinguaggio, testimoniano programmaticamente frammenti come i seguenti: « chiesero al Maestro: Maestro, come com-patire? rispose: evitando la mimesi, forma debole dell’irrisione » o, altrove: « la sintassi è meno importante dei vocaboli, che sono meno importanti degli spazi che li separano » Ne risulta un libro che oggi ha un carattere di necessità: nella misura in cui Statue linee è anche un’opera didascalicamente impegnata a mostrare quali confini può avere la cosiddetta prosa in prosa. Confini che, poiché il linguaggio della prosa in prosa ha natura intensionale e non estensionale, sono, come ben sa Giovenale, interni al testo stesso: «Sulla pellicola la seconda immagine dell’incendio si sovrappone alla prima e la brucia». Statue linee insomma dimostra che realtà e testualità letteraria non sono mondi separati e separabili, ma si coimplicano continuamente e la loro interrelazione funziona, in modo paradossale, come una sorta di nastro di Möbius. Proprio questa peculiarità di funzionamento della testualità letteraria non-assertiva è capace però allora di revocare in causa un concetto così in voga nella cultura odierna come quello di patto, quando sia applicato alla dimensione della letterarietà: il principio della coimplicazione mostra che, in fin dei conti, in letteratura, non c’è patto più di quanto non vi sia patto tra predatore e preda. Trarre le debite conseguenze teoriche da questa impostazione sarà la sfida che la critica dovrà affrontare, se il mercato simbolico e materiale della letteratura glielo consentirà, nei prossimi anni. Gian Luca Picconi ha conseguito nel 2010 il dottorato di ricerca in Filologia, interpretazione e storia dei testi italiani e romanzi presso l’Università degli Studi di Genova con una tesi dal titolo Poesia in forma di rosa di Pasolini: saggio di commento . Ha pubblicato il volume La cornice e il testo. Pragmatica della non-assertività (Tic edizioni, 2020), e saggi sulla letteratura contemporanea in volumi collettanei, riviste scientifiche e militanti.
- konnektor
Hugh Roberts, la storia e la politica araba nel cuore Donata Vanerio Il saggio ricorda la figura di Hugh Roberts, uno dei più acuti studiosi della politica araba contemporanea, scomparso nel 2023. Tracciando la sua biografia intellettuale e politica, Tom Hazeldine ne evidenzia l’approccio critico, indipendente e profondamente anti-conformista, dalla militanza nella Ernest Bevin Society alla critica radicale delle politiche occidentali in Medio Oriente. Dopo un legame iniziale quasi casuale con l’Algeria, Roberts si è dedicato a una lunga ricerca sulla Cabilia e sull’eredità politica berbera, sfidando paradigmi accademici dominanti. I suoi interventi sulla Primavera araba, raccolti nell’ultimo libro Loved Egyptian Night (2024), offrono una lettura lucida e disillusa delle rivolte in Egitto, Libia e Siria, viste come movimenti rivoluzionari incompiuti, ostacolati dall’intervento esterno e da strutture di potere locali. Il saggio ne celebra l’eredità intellettuale, il rigore analitico e la fedeltà al principio gramsciano secondo cui <>. Questo articolo è apparso su «Sidecar» , la rivista di «New Left Review» . Pubblichiamo per concessione dell'editore. Con la morte di Hugh Roberts, il mondo ha perso uno dei massimi studiosi della politica e della storia araba contemporanea. Il suo ultimo libro, Loved Egyptian Night (2024) – una retrospettiva sulle rivolte della Primavera araba in Egitto, Libia e Siria – mostrava la lucidità adamantina che ha caratterizzato il suo lavoro: «Se la politica – nel senso della pratica politica – è, come dichiarava Bismarck, un'arte e non una scienza, lo studio della politica deve essere una branca della critica», esordiva. Quindi, si richiedeva che fosse intellettualmente rigorosa e indipendente. A suo avviso, i commenti sulla politica internazionale somigliavano troppo spesso ad un coro. E Roberts non aveva tempo per i cori. Nato nel 1950 in una famiglia laburista di Hull, figlio di un docente universitario, si trasferì con la famiglia nel Middlesex e frequentò la St Paul's School come borsista. Poi, dopo un anno sabbatico a Parigi presso la rivista L'Express, che gli permise di imparare il francese, andò a Oxford, sempre con una borsa di studio. L'approccio di Hugh al mondo arabo fu quasi casuale. La sorella maggiore Ceridwen ottenne di recarsi in Algeria per una ricerca sulla gestione industriale cooperativa. Si ammalò e chiese se il fratello fosse potuto andare al suo posto. Erano i primi anni Settanta e fu l'inizio di un legame che sarebbe durato tutta la vita. Per la tesi di dottorato Roberts aveva progettato di studiare la rivoluzione agraria intrapresa dal regime di Boumédienne; si poi appassionò allo sviluppo politico della ribelle regione della Cabilia – nelle montagne del Tell Atlas e iniziò a indagare le relazioni tra le popolazioni berbere ed i conterranei di lingua araba. Roberts vi individuò la sopravvivenza di istituzioni politiche pre-coloniali, il che lo portò a mettere in discussione l'applicabilità locale del modello di Ernest Gellner in Saints of the Atlas (1969) di un « popolo senza governo » . Trascorse un anno insegnando inglese a Bouïra, all'estremità meridionale della regione, ottanta miglia a sud-est di Algeri, e un altro anno conducendo ricerche sul campo durante le lunghe vacanze universitarie. Ai Kabyles – cruciali nel Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) durante la guerra – Roberts, che ne ammirava la chiarezza strategica nella lotta armata contro il colonialismo francese (1954-1962), dedica le parole a seguire. «[…] abbandonando l'agitazione nel quadro della legalità francese perché ritenuta inutile e dichiarando invece guerra alla Francia, il FLN dava prova di un realismo spietato, traendo insegnamento dalle ripetute delusioni, riconoscendo che si trattava di un vicolo cieco e ri-posizionandosi su un terreno molto diverso, quello della guerriglia, il maquis o, come lo chiamano gli algerini, al-jebel («la montagna » ). In questo modo, i fondatori del FLN rivoluzionarono la loro prassi e se stessi, trasformando il nazionalismo algerino da movimento rivendicativo a movimento che creava fatti, e i suoi attivisti da supplicanti ad agenti di liberazione». Posizione, questa, in contrasto con la politica laburista di Roberts nel proprio paese, dove era membro della Ernest Bevin Society , un'emanazione del marxismo anglo-irlandese filo-unionista che prendeva il nome, in onore retrospettivo, dal Ministro degli esteri di Attlee durante la Guerra Fredda. Roberts esaltava quella che considerava il pragmatismo, la forza e i valori della classe operaia di Bevin. Ne discutemmo a pranzo a Soho, dove ci incontrammo nel 2022 mentre stavo curando Loved Egyptian Night . Era un punto su cui dissentivamo, educatamente ma con fermezza. Kenneth Morgan, che non era certo un à outrance di sinistra, aveva da tempo richiamato l'attenzione – in Labour in Power (1984) – sull'anticomunismo grossolano di Bevin, che – «cupamente soddisfatto» dal discorso di Churchill a Fulton – era un uomo dalle «opinioni forti ma senza grandi riserve di conoscenza». «Istintivamente impegnato» nell'intervento militare britannico in Medio Oriente, il suo atteggiamento nei confronti del mondo coloniale era «praticamente indistinguibile da quello delle amministrazioni conservatrici o imperialiste del passato». D'altra parte, Roberts vedeva chiaramente attraverso le banalità mediatiche di Kinnock. Più tardi, scrivendo su Prospect verso la fine del mandato di Blair nel 2006, critica aspramente il New Labour definendolo «un guscio vuoto, svuotato, disorientato, compromesso, corrotto, abbandonato nella disperazione e nel disgusto». Mi disse che un vero partito teneva le grandi truppe sulle ali e si lanciava al centro per la battaglia, non per la triangolazione. Quello fu il nostro unico incontro. Roberts aveva opinioni salde eppure uno slancio curioso, e la conversazione fu molto ampia, pronta ad intraprendere qualsiasi direzione. Disse che scriveva racconti per svago e mi diede un'idea del suo background . Il primo incarico da insegnante lo ebbe alla School of Development Studies dell'Università dell'East Anglia dal 1976 al 1988. Aveva legami familiari con King's Lynn e il nord-ovest del Norfolk e un affetto duraturo per quei luoghi, ma trovava la vita universitaria a Norwich opprimente. Come scrisse in seguito: «Non riuscivo a impedirmi di pensare in termini politici alle materie della mia ricerca accademica, e non ero disposto a limitare il mio pensiero o i miei scritti ai parametri mentali e ai protocolli terminologici di nessuna delle scuole di pensiero esistenti che avevo incontrato nel mondo accademico. Di conseguenza, ho scoperto che era molto difficile pubblicare i miei pensieri in forma accademica e che le mie prospettive di una carriera accademica soddisfacente erano nulle. Quando mi sono reso conto che era così, ho lasciato l'insegnamento e sono andato alla scoperta del mondo». Prima a Londra come scrittore freelance e consulente per la BP – colosso del petrolio – , quindi curatore della rivista Labour and Trade Union Review della Bevin Society , seguì da vicino la crisi in Algeria, dove fece ritorno numerose volte dal 1992, pubblicando le riflessioni su quegli sguardi ravvicinati in diverse testate. Poco dopo l'11 settembre, Tariq Ali ha commissionato a Hugh un libro per i tipi della Verso durante una cena a Il Cairo. The Battlefield (2003) – sottotitolato Studies in a Broken Polity – raccoglie i suoi puntuali scritti sull'Algeria per International Affairs , Middle East International , Times Literary Supplement , tra gli altri, dalle rivolte del 1988 scatenate dalle misure di liberalizzazione capitalista di Bendjedid fino alle elezioni legislative del maggio 2002, quando il FLN ha riconquistato il primato. Roberts rifiutava di classificare questo «terribile dramma» come « guerra civile » , poiché non erano emersi nuclei opposti nella costruzione di una forma di governo. Lo definiva piuttosto una « tracimazione » di conflitti tra fazioni distorta dai poteri forti coloniali, a seguito dell'esaurimento intellettuale del FLN, del crollo del nazionalismo come forza politica organizzata e della sua eclissi da parte dell'islamismo. Né una democrazia tantomeno un governo all’insegna della legalità sarebbero stati imposti dall'esterno, ha insistito. «La pressione esterna è servita solo a indurre le autorità algerine a fare bella figura o a concedere ulteriori concessioni sul fronte economico». Tornato alla vita accademica nel 1997 come ricercatore senior presso la London School of Economics and Political Science (LSE), quattro anni dopo si trasferisce a Il Cairo occupandosi di public advocacy come direttore per il Nord Africa dell' International Crisis Group (ICG), una ong atlantista per la « prevenzione dei conflitti » . Il suo primo briefing per il Crisis Group valutava la Primavera nera in Cabilia, un enorme movimento di protesta scatenato dalla brutalità della Gendarmeria nazionale algerina nella peggiore repressione dall'indipendenza. Il rapporto formulava una ventina di raccomandazioni, di cui solo un paio erano rivolte a una potenza esterna, l'Unione Europea. L'onere di trovare l'immaginazione e la determinazione necessarie per risolvere i propri problemi doveva ricadere sulle forze politiche algerine. In privato Roberts era molto critico nei confronti dell'ICG, che a volte sosteneva le operazioni militari offensive degli USA, a partire dalla Jugoslavia negli anni Novanta. Nel 2007 si risolve infatti a rimettere l’incarico dedicandosi nuovamente alle ricerche sulla storia della Cabilia. Quattro anni dopo, con l'accelerazione della Primavera araba, torna brevemente nell'ICG ponendo la condizione che non avrebbe raccomandato un intervento militare occidentale in Nord Africa. Ben Ali fugge da Tunisi il 14 gennaio 2011 e Mubarak è costretto a dimettersi l'11 febbraio, accelerando l’escalation dei disordini contro Gheddafi a Bengasi. (Per quanto riguarda l'Algeria a ovest, Roberts ipotizza che le prime proteste di piazza siano state istigate dall’intelligence di regime «per farle sgonfiare al momento giusto»). Il 22 febbraio viene licenziato il dossier Riflessioni sulla crisi libica – per uso interno alla ong: «1. Ieri è stato il mio primo giorno di ritorno al lavoro come direttore del progetto Nord Africa. Ho avuto molto da fare, da qui la mia lentezza nel reagire alla situazione libica. Ora mi sento come se stessi guardando un treno in corsa. Potrebbe essere troppo tardi per me per convincere l'ICG a fermarsi prima di agire, ma ci proverò. 2. Con le notizie delle violenze in Libia, e in particolare della risposta repressiva del regime alle proteste, i colleghi sembrano molto agitati, il che è naturale. Ma l'agitazione – e l'orrore è ovviamente una forma di agitazione – non è uno stato d'animo che favorisce decisioni politiche sagge. Condivido la lamentela di Rob [Malley] riguardo alla « cacofonia » . 3. Sia all'interno che all'esterno dell'ICG sembra esserci un forte sostegno a favore di un intervento internazionale serio e di tipo più pesante, che comporti una violazione piuttosto esplicita della sovranità nazionale libica (ad esempio, zone di interdizione al volo) per ragioni essenzialmente (o almeno dichiaratamente) umanitarie. Prima che l'ICG si schieri apertamente a favore di questa posizione, suggerisco di riflettere un attimo sul risultato che desideriamo ottenere e che è realisticamente possibile ottenere con la politica, sulla base delle informazioni affidabili (e non di quelle inaffidabili) a nostra disposizione.» Sebbene abbia tratto energia dalle rivolte nei vicini Tunisia ed Egitto, l'ondata di proteste in Libia si è «scagliata contro uno scoglio di tutt'altro tipo». Il regime del Colonnello era una struttura personalista e improvvisata, nettamente diversa dallo stato-esercito egiziano, non riducibile al mandato di Mubarak. «La minaccia di Mubarak « o me o il caos » poteva essere considerata un bluff – osserva Roberts – ma c'è un pericolo molto reale che la Libia precipiti in un caos reale, prolungato ed estremamente violento se il regime di Gheddafi cade in questo momento». Profetico. Sarkozy e Cameron hanno sostenuto con entusiasmo la guerra di bombardamenti della NATO contro la Libia, rovesciando Gheddafi – catturato e ucciso il 20 ottobre – consegnando il paese all'anarchia dei signori della guerra e delle milizie. Roberts ha scritto un memorabile articolo e un'esposizione storica per la London Review of Books . «Quindi Gheddafi è morto e la NATO ha combattuto una guerra in Nord Africa per la prima volta dal 1962, quando il FLN sconfisse la Francia – esordisce, chiedendo provocatoriamente – cosa ha ottenuto la Libia in cambio di tutta la morte e la distruzione che le sono state inflitte negli ultimi sette mesi e mezzo?». Sempre per la LRB, riconosce ai giovani dietro le prime proteste a Tahrir uno stato di «rivoluzionari nello spirito». Tuttavia, la destituzione di Mubarak recava i segni di un rimpasto militare, non di un rovesciamento rivoluzionario. Che la politica egiziana fosse ancora vincolata alla logica dello stato dei Liberi Ufficiali – istituito nel 1952 – è stato chiarito dal golpe del generale Abdel Fattah al-Sisi contro il successore eletto di Mubarak, Mohamed Morsi dei Fratelli Musulmani, il 3 luglio 2013. Roberts ha poi affrontato la guerra civile per procura in Siria, «terminale della Primavera araba», criticando aspramente il Segretario di Stato Clinton e i suoi tirapiedi europei per aver cercato di riciclare a Damasco la politica di cambio di regime già attuata in Libia, chiudendo la porta a qualsiasi tentativo di negoziare una soluzione prima che il Paese fosse in gran parte distrutto: «La politica occidentale è stata una vergogna e il contributo della Gran Bretagna dovrebbe essere motivo di vergogna nazionale». Alla fine del 2011 Roberts lascia l'ICG un’ultima volta per assumere una cattedra alla Tufts University. Nel 2014 sono stati pubblicati due libri, Berber Government : The Kabyle Polity in Pre-Colonial Algeria e Algérie-Kabylie, études et interventions . Il primo costituisce un ampliamento della sua ricerca di dottorato, che cercava di cogliere i meccanismi interni della politica cabila nel tardo periodo ottomano. Il secondo è una raccolta di saggi che coprono il periodo dal 1994 al 2010, molti già editi per la rivista algerina Insaniyat , insieme a interviste, conferenze e riflessioni su Gellner e Bourdieu. Nel 2021, prossimo alla pensione, è pronto a rileggere la Primavera araba a dieci anni di distanza – «Il gufo di Minerva vola al tramonto» – offrendone alla Verso il progetto di indagini approfondite su due momenti cruciali, Tahrir Square nel gennaio-febbraio 2011 e Bengasi nel febbraio-marzo. Voleva inoltre rivedere criticamente il lavoro di altri commentatori, tra cui Marc Lynch a Washington, Gilbert Achcar a Londra e Jean-Pierre Filiu a Parigi. Cos’era stata la Primavera araba? Il movimento di protesta tunisino si era configurato come una rivoluzione, perché aveva superato il quadro politico-costituzionale del regime autoritario tracciando una via verso la democrazia. Oltre le somiglianze formali, secondo Roberts le rivolte in Egitto, Libia e Siria non hanno superato l’adolescenza della rivolta, nonostante l’enorme simpatia riconosciuta ai manifestanti e la sincera ammirazione del loro coraggio. Un fattore decisivo è stato il fatto che in ciascuno di questi casi attori esterni hanno influenzato il corso degli eventi. L'amministrazione Obama ha sollecitato la destituzione sommaria di Mubarak, abbandonando l’alleato quando il gioco sembrava ormai finito, senza mostrare alcun interesse a facilitare una transizione democratica. Era ridicolo aspettarsi che le potenze occidentali sponsorizzassero autentiche rivoluzioni democratiche in qualsiasi parte del mondo, men che mai in Medio Oriente. «L'estrema desolazione in cui è stato ridotto il Medio Oriente arabo – sosteneva Roberts – [era la conseguenza della] neutralizzazione immediata e della sconfitta finale delle aspirazioni rivoluzionarie ovunque a est della Tunisia». Nel 2023 torna a Londra, più vicino alla figlia Leila, complici le condizioni di salute che lo obbligano a ripetuti soggiorni ospedalieri per le cure del cancro. A parte una recensione critica sul TLS, Loved Egyptian Night è stato ignorato dalla stampa britannica all’uscita, lo scorso anno. Penso che Hugh avesse ragione nella valutazione del silenzio: «Il mio libro formula critiche estremamente severe alla politica britannica, fornendo al contempo una storia politica dettagliata e coerente di ciò che è realmente accaduto […] Ci aspettiamo davvero che ciò che resta dell'establishment britannico, sempre più disperato, apprezzi tutto questo o reagisca in modo corretto?» È perciò entusiasta per l’invito del Middle East Studies Group della LSE – di cui era membro dal 1978 – a tenere una conferenza a novembre: «sembra che qualcuno abbia visto il mio libro e voglia discuterne. È una svolta incoraggiante». La conversazione lo lasciò di buon umore, anche se poco dopo la salute peggiorò ulteriormente. Mi scrisse «Mi rendo conto che Gaza oscura completamente le preoccupazioni persistenti sulla Primavera araba, ma la cinica realtà e la brutalità del potere occidentale in Medio Oriente, ora così pienamente smascherata, è un tema centrale del mio libro». Le conclusioni erano cupe, ma l'intelletto che le sosteneva era irriducibile. Ancora: «Con la mia interpretazione cupa dei veri scopi e obiettivi della politica che ha effettivamente determinato i risultati, sto cercando di fare luce, non di deprimere, e di salvare ciò che può essere salvato. Il motto di Gramsci, « la verità è rivoluzionaria » , è stato il mio motto in tutto ciò che ho scritto per molti anni». Stava scrivendo di Gaza quando è mancato. Tom Hazeldine è editor presso la testata « New Left Review » , dove tiene inoltre una rubrica per il blog « Sidecar » . Scrive per « The Guardian » , « Red Pepper » e « Tribune » .
- fascismi
Note preliminari per una riflessione sul fascismo white Il seguente testo intende chiarire alcuni elementi preliminari sulla base dei quali si svilupperà il lavoro di questo comparto. L’obiettivo preposto è quello di procedere a un’analisi che indaghi le sfumature della complessa e controversa categoria di fascismo nel presente. L'articolo è stato elaborato dalla redazione del comparto <> curato da Giacomo Rinalduzzi 1. La parola fascismo è sulla bocca di tutti. Dai talk show alle discussioni al bar, dai quotidiani alle manifestazioni, dai cartelli pubblicitari ai comunicati politici, è oggi diventato un termine vuoto: passepartout utilizzato per chiudere conversazioni scomode o torcere le argomentazioni a proprio favore, ricordo di sostituzione o bandiera dei partiti politici, spesso rivendicazione senza storia di chi è in cerca di identità, del termine non si comprendono più i confini, le particolarità e la pregnanza. In un’epoca in cui è la pubblicità dei discorsi a dominare sulla consistenza delle idee questo non può stupirci. I termini si appiattiscono, le parole sono fiato, le riflessioni diventano, appunto, discorsi. Il termine in questione può essere impiegato come concetto, a patto di seguire l’indicazione che ogni concetto debba rinviare ad un problema . Questa accortezza non cade nel pragmatismo ingenuo, né tanto meno in una critica semplicistica al linguaggio filosofico, essa risponde piuttosto ad una questione che ci sembra importante sottolineare: oggi la macchina discorsiva produce concetti senza presa diretta sui problemi. Così il fascismo è sintomo di questa tendenza epocale, dove la confusione viene mascherata da semplificazioni estreme. La vuotezza di un concetto, di cui la saturazione è manifestazione, impone, se lo si vuole riafferrare nel suo contenuto, un lavoro decostruttivo. Affinché possa essere utilizzato come categoria analitica, utile a comprendere le forme di potere contemporanee, è necessario dunque fare un passo indietro, sospendere l’ovvietà presupposta dei valori in gioco per poter ricostruire una sua possibilità d’uso . La direttrice che guida questo lavoro è quindi una: prendere atto della sterilità pubblica del termine fascismo, demistificare i falsi nessi che esso comporta, tentare di riconnetterlo a un problema tangibile . 2. Il dibattito pubblico, e spesso anche militante, sul tema finisce per polarizzarsi in due discorsi formalmente avversi ma in realtà complementari. Una prima posizione vede il fascismo come un fenomeno concluso nel 1945, e considera tutto quello che è venuto dopo come qualcosa di essenzialmente diverso, se non irrilevante: in altre parole considera esaurita la possibilità di utilizzare la categoria di fascismo per interpretare fenomeni contemporanei. La seconda invece utilizza il termine fascismo per parlare praticamente di qualsiasi cosa contenga in sé il gene del dominio, della prevaricazione o della violenza. Si badi bene che entrambe le posizioni vengano usate tanto dalla « sinistra » quanto dalla « destra » . Da sinistra si utilizza la prima argomentazione per sostenere che quello che ci troviamo ad affrontare oggi non abbia nulla a che fare con il fascismo storico , e sia al contrario riconducibile a nuove categorie analitiche, connesse a una vaga quanto indefinita crisi della democrazia . Mentre da destra viene utilizzata come retorica per sminuire la gravità di qualsiasi postura o posizionamento, azione politica o dichiarazione marcatamente autoritaria, razzista o sessista, sostenendo che il fascismo sia stata una parentesi buia, ma conclusa, e parlarne sia compito esclusivo degli storici o degli invasati. La seconda argomentazione invece, viene usata da una certa sinistra per denunciare atteggiamenti prevaricatori, o qualsiasi politica che attacca le libertà sociali e i diritti civili, un jolly da spendere contro ogni avversario, ignorando che spesso ad aver sostenuto questi atteggiamenti o politiche siano gli stessi partiti che si rifanno ad una tradizione di sinistra. Al tempo stesso, la destra arriva a utilizzare questa retorica per denunciare un improbabile « fascismo degli antifascisti » , ergendosi a paladina di un’ ultra-libertà di parola, di azione, quindi di prevaricazione. In ogni caso, entrambi i discorsi, e i relativi utilizzi, producono uno stato di confusione diffuso riguardo al concetto stesso di fascismo contemporaneo, impedendo una presa diretta tra il concetto e la realtà. 3. Tali discorsi risultano non solo fuorvianti ma addirittura controproducenti, strutturati attorno ad una polarizzazione fittizia, contribuiscono ad annientare il valore analitico del termine fascismo, rendendolo inutilizzabile. Preso atto di ciò, riteniamo sia necessario sospendere due ulteriori presupposti: l’utilizzo delle categorie di destra e sinistra e l’opposizione manichea tra democrazia e fascismo . Questa duplice operazione rappresenta il punto di partenza teorico e metodologico della nostra analisi. Con questo non si intende dire che non esista alcuna differenza oggettuale tra le politiche e le retoriche delle forze di destra e della sinistra. Così come è sciocco affidarsi a esse per comprendere la natura del fascismo , ancora più sciocco sarebbe non notare le differenze che intercorrono tra i due. È evidente che un Trump sia diverso da un Biden, che Meloni sia diversa da Schlein o Conte, come che il sogno globalista di un nomade digitale che gira il mondo in birkenstock sia diverso dal neovittorianesimo di un ultranazionalista che invoca Dio, Patria e Famiglia. Non coglierne le differenze e inserire tutti nello stesso calderone sarebbe, oltre che ingenuo, controproducente. Tuttavia va riconosciuto il tratto comune a entrambi, cioè l'integrazione alla comunità del capitale , che sia in chiave spiccatamente repressiva e conservatrice della destra, o apparentemente riformista e « progressista della sinistra. Per sciogliere l’impasse manichea sarà necessario partire dall’assunto che il fascismo è una venatura propria della democrazia liberale, non semplicemente una sua degenerazione. Con ciò non intendiamo riferirci esclusivamente ai successi elettorali dei partiti nazionalisti, quanto a meccanismi e dinamiche proprie delle forme di governo liberali. Il fascismo , tanto quello storico quanto quello contemporaneo, non compare come un corpo alieno, ma nasce, cresce e si sviluppa all’interno, in relazione, alle democrazie liberali. Siamo convinti che questa opposizione paralizzante tra democrazia e fascismo oscuri la prospettiva sui loro punti di intersezione. 4. Si sarà quindi compreso che non intendiamo il fascismo in un rimando a specchio con i regimi degli anni Trenta, ma come un elemento paradigmatico della modernità, che emerge e sommerge lungo uno sviluppo diacronico e non cronologico, in una temporalità dissestata che va dal colonialismo europeo al presente. Come fenomeno che assume questo nome, il fascismo nasce in un determinato momento storico. Questo momento sorgivo raccoglie nervature diverse della cultura europea. Alcune più evidenti come l’antisemitismo, il colonialismo, riconducibili ad un certo suprematismo legato all’esaltazione della nazione. Altre, meno evidenti, che costituiscono la fibra del fascismo , si intrecciano al modo in cui la composizione sociale si è modificata a seguito delle rivoluzioni borghesi. In questo senso il termine fascismo è da considerare come eminentemente moderno ed occidentale , come punto di convergenza delle tendenze di una determinata storia, il quale, travalicando l’esperimento politico disastroso degli anni trenta, contiene in sé le venature di una determinata cultura. Queste insistenze sulla determinazione sono volontarie, intendiamo con ciò situare il campo in cui il concetto possa trovare una presa diretta nella realtà: questo campo è il risultato della storia di una cultura, la nostra. 5. A differenza dei discorsi vagliati precedentemente, non si andrà alla ricerca di una definizione specifica e delimitata del fascismo . L’errore di queste letture è stato proprio quello di cercare IL Fascismo, come realtà univoca e singolare. Così facendo ci si dimentica che quello che si ha davanti è un fenomeno sfuggente, ambiguo e mutevole, pronto a rivelare nuove facce per adattarsi a una situazione specifica: un’eterna contraddizione, come la modernità di cui è emblema. Nonostante questa sua natura camaleontica, il fascismo è un fenomeno tangibile, concreto e materiale. Talvolta in maniera evidente, come in un'adunata di Casapound, o dissimulata, come in un comizio di Fratelli d’Italia, altre ancora in maniera subdola o apparentemente ignara, come nei discorsi di un manager di azienda. Non esiste quindi un solo Fascismo, ma tante forme di fascismo possibili, e questo proprio perché il fascismo in sé si dispiega come una forma capace di evolversi radicandosi in discorsi e pratiche inedite. Il compito non sarà quindi la ricerca spasmodica di confini netti o definizioni, ma la comprensione di come e perché ad oggi queste forme continuino a manifestarsi come fascismi. L’utilizzo del termine, seppure depotenziato dalla macchina discorsiva contemporanea, sarà imprescindibile per definire un tratto specifico, una formulazione di verità, una certa idea di mondo. 6. Per riconoscere queste manifestazioni l’analisi dovrà essere differenziata. Nello specifico si partirà da una prima tesi, secondo la quale per poter comprendere il dispiegarsi del fascismo contemporaneo è necessario distinguere due piani che nella movenza reale si rimandano a vicenda. Esiste infatti un fascismo che si muove sul piano molecolare, legato alla forme di vita, che si diffonde e circola passando per battute, commenti, chiacchiere, discussioni a cena o sull’autobus. Un fascismo strisciante a cui nessuno può dirsi veramente immune. Sorvolando la problematicità di alcune derive psicologizzanti, è innegabile che, per comprendere il fascismo nel suo aspetto molecolare, si debbano indagare le modalità attraverso cui fa presa sui desideri, sugli ideali, sulle strutture psichiche dei soggetti, dando una forma a quelle vite che altrimenti sembrano abbandonate alla deriva. In altre parole, la domanda a cui l’interpretazione molecolare del fascismo potrebbe rispondere è: come e perché quei desideri specifici e quegli ideali che danno forma alle vite si diffondono e si radicano nella quotidianità? Distinguiamo da questo un secondo piano, definibile molare, che emerge nelle forme governamentali dei paesi occidentali. Tanto dai governi guidati dalle nuove destre, quanto nelle fumose strutture della governance . Questo secondo piano di analisi implica la necessità di osservare prospetticamente le tecniche attraverso le quali operano le diverse forme di governo. Un'interpretazione molare aiuterà a sciogliere punti solo apparentemente contraddittori, offrendoci uno strumento attraverso il quale indagare il rapporto tra le politiche identitarie, securitarie e l’attuale ordine economico. Questi due piani di analisi partono da uno stesso movimento, dove il molare e il molecolare sfumano continuamente, si intersecano e si fondono, partecipando alla costruzione di un mondo. 7. Il lavoro da intraprendere, attraverso diversi strumenti di analisi, dalla produzione di testi critici a conversazioni informali, sarà quello di liberarsi dal discorso inquinato che ruota intorno al termine fascismo e risemantizzarlo, riallacciando concetto e realtà per indagare come i fascismi emergano nel presente.
- il secondo senso
Ritorno al presente. Nostalgia is killing the future white Nel racconto di una passeggiata solitaria a New York, l’autrice riflette su un poster che recita «Nostalgia is killing the future» , innescando una profonda analisi sulla nostalgia culturale, in particolare quella delle comunità italoamericane e più in generale dell’Occidente. Attraverso riferimenti a Mark Fisher, esplora il legame tra la retromania culturale, la crisi dell’immaginazione del futuro e le derive conservatrici e autoritarie contemporanee. Il testo denuncia una tendenza regressiva che, nella paura del futuro, idealizza il passato e legittima guerre e nazionalismi sotto forma di un millenarismo apocalittico. Nel mezzo di settembre di due anni fa mi trovo a camminare sola per New York. Come spesso accade mi perdo, perdo le ore, ma soprattutto mi perdo nella geografia reticolata – per me incomprensibile in quanto severamente geometrica – di Manhattan. Torno violentemente catapultata nel presente quando il mio sguardo incrocia lui: Scatto velocemente questa foto con il cellulare per cristallizzare l’immagine, poi contestualizzo lo spazio-tempo precedentemente perduto: è un poster attaccato su un muro dell’ormai «ex» Little Italy di New York (da tempo ingoiata da China Town), che mi turba e mi affascina, e continua a farlo, sia per l’immagine – ambientata probabilmente durante il Thanksgiving supper (la cena del ringraziamento) – sia per la frase emblematica che riporta: « Nostalgia is killing the future ». Quindi innanzitutto mi rendo conto che sulle mappe del mio telefono il muro che sto osservando è segnato come parte di Little Italy ma intorno a me è tutto palesemente scritto in cinese. Scoprirò solo in seguito che le comunità italoamericane di New York si trovano oggi soprattutto nel West Bronx, a sud di Brooklyn vicino Coney Island, nel Queens e a Staten Island. Sulla relazione tra la nostalgia degli italoamericani per un passato mal vissuto in patria e un futuro per i figli cresciuti nel nuovo continente come veri americani, tornerò nel prossimo articolo, che ho pensato come la seconda puntata di questo. Ma per ora basti dire che dopo anni di lavoro come cuoca per turisti e di ricerca personale con diverse generazioni di famiglie italiane emigrate all’estero a partire dagli anni Cinquanta, soprattutto italoamericani, mi sento di affermare che oggi esiste una forte connessione tra il pensiero conservatore della «tradizione» degli italiani all’estero e le derive nazionalistiche e revansciste degli italiani dentro l’Italia. Tornando però al poster, l’immagine, come detto, mi ha subito evocato il pasto del giorno del Ringraziamento tanto caro agli statunitensi, soprattutto a quelli bianchi, che lo celebrano dall’Ottocento per esaltare la storia dei primi pellegrini ( pilgrim fathers ) che si insediarono nell’East Coast in uno dei capitoli della storia moderna americana attualmente più controversi e contestati, soprattutto dalla popolazione afro e latino discendente. Ritratti qui nell’atto di sporzionare un lucente tacchino, i membri di questa famiglia come da tradizione per questa festività, si accalcano intorno a un padre ben vestito a capo tavola che onorerà il primo taglio del tacchino da bravo capo famiglia e una madre in grembiule da cucina che serve le portate. Questa iconografia risulterebbe piuttosto vintage, da pubblicità americana degli anni Sessanta, se non fosse che, a oggi, molti americani cosiddetti wasp (White Anglo-Saxon Protestant) ancora celebrano tale festività nazionale con la stessa estetica e gli stessi usi dell’Ottocento. Ma ancora più intrigante risulta questa faccenda della «nostalgia che sta uccidendo il futuro» nella frase riportata sotto la tavola imbandita. In un libro molto dark e molto bello scritto nel 2009, Mark Fisher (alias K-punk) parlando delle espressioni contemporanee della cultura pop angloamericana, approfondisce una tendenza – già individuata da Reynolds in ambito musicale – alla Retromania, ovvero ad abbandonare le tensioni underground avanguardiste, come era potuto essere per la cultura e le musicalità elettroniche dei rave negli anni Novanta – abbondantemente vissuti da Fisher nella sua adolescenza inglese – per favorire il ritorno di sonorità pop di decadi passate (il cosiddetto revival), come nel fenomeno della moda della musica trash ancora in voga oggi qui in Italia, che funzionerebbero, secondo lui, come una sorta di copertina di Linus per l’ansia di un futuro precario. Fisher nella sua hauntologia , cioè nella sua ricerca dei fantasmi che infestano la cultura postmoderna, attribuisce a un piano politico le cause di questo maniacale rivolgersi al passato, e in particolare all’oracolare monito thatcheriano del « there is no alternative » pronunciato dalla prima ministra inglese al volgere del secolo per sancire che non vi è alternativa possibile al neoliberismo. Margaret Thatcher sintetizza così una tendenza imperante nel pensiero delle destre e nella fifoneria delle sinistre occidentali ancora oggi, ovvero che la spinta ai futuri possibili garantita dalla sperimentazione e dalla fantasia senza briglie, così come avveniva per i movimenti della cultura rave in Europa, restando sull’esempio di Fisher, deve, per necessità di ordine e controllo, infrangersi sulla monolitica e prudente garanzia della conservazione dello status quo in tempi di incertezza economica e politica. Questa nostalgia per il futuro che non c’è più, la malinconia per tempi in cui si poteva proiettarsi in là con le proprie aspettative di vita ma anche con i movimenti culturali di massa «mentre oggi non si può!» che invita a ritirarsi in passati presunti migliori senza mai scagliarsi nell’angoscioso e temutissimo ignoto del futuribile, funziona da ossatura massiccia per il pensiero conservatore, oscurantista e guerrafondaio occidentale del presente. I corollari di questa postura culturale sono, a livello molto più materiale, il bisogno indotto e auto-indotto di sicurezza, di perimetri chiari, di spazio privato, di riconoscimento sanguigno, di razza e dinastia, ma, soprattutto, il rivolgersi alla guerra come strumento risolutore che ristabilirà un equilibrio nuovo ma su basi evangeliche e con in mente scenari biblici post-apocalittici, che non sono altro che nomi diversi per la nostalgia del futuro. Di recente Naomi Klein e Astra Taylor hanno parlato di «fascisti dell’apocalisse» (Musk, Netanyahu, Trump, ecc.) o «fascisti millenaristi», per descrivere coloro che come nell’interpretazione cristiana fondamentalista del rapimento biblico vogliono ascendere alla città dorata del cielo mentre i dannati rimangono ad affrontare una battaglia apocalittica sulla terra. Molti politici e imprenditori vicini a Trump che le autrici definiscono «sionisti cristiani», plaudono in questa chiave all’operato di Israele e al genocidio di Gaza, non negandolo bensì accogliendolo esplicitamente come segno positivo di un avvenire prossimo, con la guerra «finale» in terra santa, dell’accesso a pochi eletti alla città dorata che meritano per divino disegno (leggiprivilegio). In un momento di crisi profonde su scala globale (ecologica, bellica, psicologica, umana, economica, di cura, sanitaria, scegliete voi quale estrarre dal mucchio), mi chiedo, da dove origina e su cosa fa presa l’irrefrenabile attrattiva per la nostalgia del futuro? Ciò che è certo è che bisogna ricreare delle condizioni per un presente molto meno crudele e securitario che permetta di ricostruire l’abitudine a pensare un futuro degno di essere definito tale, e non un mezzo futuro-passato, liberandosi dalle paure ancestrali che oggi vediamo sedimentarsi attraverso l’inevitabilità biblica delle guerre del fascismo millenarista. Arianna Pasquini è un’attivista romana, lavora da quattordici anni come cuoca e ha un dottorato in Studi politici conseguito presso l’Università di Roma La Sapienza nel 2023. Le sue ricerche nell’ambito della filosofia politica contemporanea sono state incentrate soprattutto sulla relazione tra femminismi storici, transfemminismi odierni e teorie sulle diverse crisi del mondo contemporaneo (di cura, ecologica, politica, di senso). Il rapporto tra teoria e prassi, tra paradigmi filosofici e pratiche militanti, è alla base della sua metodologia di inchiesta, così come l’analisi della critica immanente ai femminismi e la relazione tra donna e natura (sia questa presunta, costruita socialmente, mistica o materiale).
- konnektor
India e Pakistan: verso il disastro Roberto Gelini Il conflitto tra India e Pakistan del 2024, innescato da un attentato a Pahalgam, ha riacceso la crisi del Kashmir, coinvolgendo scontri aerei, minacce nucleari e interventi diplomatici USA. Alla base del conflitto ci sono questioni storiche irrisolte, come la negazione dell’autodeterminazione del Kashmir, il nazionalismo autoritario indiano e la competizione geopolitica tra USA e Cina. Entrambi i paesi affrontano gravi crisi interne che alimentano l’instabilità regionale. Questo articolo è apparso su Sidecar , il blog della New Left Review , rivista bimestrale pubblicata a Madrid dall' Instituto Republica & Democracia di Podemos e da Traficantes de Sueños , ed è pubblicato con l'espressa autorizzazione del suo editore. Ora che si sono calmate le acque dopo la battaglia tra India e Pakistan – il conflitto aereo più significativo tra i due paesi ad oggi – vale la pena riflettere sul suo significato più ampio. Quali sono state le origini e come influenzerà la politica della regione? L'innesco immediato è stato l'attacco terroristico a Pahalgam perpetrato dai militanti del Kashmir alla fine di aprile, in cui sono stati uccisi 26 turisti. Il governo indiano ha accusato la controparte pakistana di aver orchestrato la sparatoria. Il Pakistan ha negato le accuse offrendosi per avviare un'indagine congiunta, ma la classe politica indiana si è dimostrata irremovibile e ha iniziato a battere i tamburi di guerra. L'alto comando militare pakistano ha dichiarato che il paese avrebbe reagito a qualsiasi aggressione, sollevando la possibilità di uno scontro nucleare. Non è trascorso molto prima che le due parti iniziassero a scambiarsi colpi, causando 31 morti nei quattro giorni successivi. Il conflitto è scoppiato il 7 maggio, quando l'India ha lanciato una raffica di missili contro i cosiddetti « siti terroristici » all'interno del Pakistan. Sono stati uccisi più di due dozzine di civili, tra cui almeno un bambino. L'esercito pakistano ha risposto schierando aerei J10 di fabbricazione cinese armati con missili PL-15, il che stava a significare che la conflagrazione fosse – almeno a un certo livello – una prova dell'equipaggiamento militare della Repubblica Popolare Cinese contro quello occidentale. Quando hanno cominciato a circolare notizie secondo cui cinque jet indiani erano stati abbattuti, alcuni analisti della difesa hanno osservato che il vero vincitore della scaramuccia era la Cina. Entrambe le parti hanno immediatamente rivendicato la vittoria dopo questo primo round di ostilità. Tuttavia, le speranze di una rapida soluzione negoziata sono state deluse l'8 maggio, quando l'India ha inviato un gran numero di droni di fabbricazione israeliana nel territorio pakistano. L'esercito pakistano ha affermato di averne intercettati quasi tutti prima che potessero danneggiare infrastrutture civili o militari. Ma l'attacco è stato intensificato due giorni dopo, con altri droni e missili indiani che hanno colpito aree civili densamente popolate nelle principali città pakistane. A questo punto, i vertici militari pakistani hanno deciso di reagire con attacchi aerei e con droni, alcuni dei quali hanno preso di mira basi aeree indiane. I timori di un'escalation nucleare sono diventati improvvisamente credibili e ha cominciato a diffondersi il panico. I resoconti di ciò che è accaduto dopo sono differenti. Una versione suggerisce che, dopo aver sventato il tentativo dell'India di affermare la propria superiorità aerea, il Pakistan abbia effettivamente costretto il vicino ad accettare un cessate il fuoco. Altri sostengono che il Pakistan si sentisse con le spalle al muro e abbia segnalato la sua disponibilità a ricorrere all'opzione nucleare se il conflitto fosse continuato, il che ha accelerato i colloqui per porre fine ai combattimenti. In ogni caso, i negoziati segreti con Washington hanno portato a una fragile pace, annunciata da Donald Trump sui social media, che si è attribuito il merito dell'accordo. In India, i critici hanno affermato che il governo avesse ceduto alle pressioni degli Stati Uniti senza raggiungere alcuno dei propri obiettivi bellici. In Pakistan, l'atmosfera era euforica. Molti ritengono che l'aviazione militare, sostenuta dalla Cina, sia ora riuscita a ristabilire l'equilibrio militare e a minare la pretesa di egemonia regionale dell'India. Il recente conflitto fa seguito a decenni di tensioni, periodicamente sfociate in violenze, sullo status conteso del Kashmir. Sia l'India che il Pakistan hanno rivendicato la sovranità sul territorio a maggioranza musulmana dopo la divisione del 1947 – il primo ha conquistato i due terzi dell'area, mentre il secondo ha rivendicato il terzo restante – e da allora lo hanno trasformato in una delle regioni più militarizzate al mondo. Dopo quattro decenni di rabbia e agitazione nella valle occupata, il presunto broglio elettorale dell'esercito indiano nel 1987 ha provocato una serie di rivolte di massa. Queste culminarono nel 1989 in un'insurrezione armata guidata dal Fronte di Liberazione del Jammu e Kashmir (JKLF), che mira a istituire uno stato laico indipendente. Nel corso degli anni '90, molti dei gruppi che combattevano nel territorio ricevettero addestramento in campi militanti in tutto il Pakistan. L'esercito indiano rispose ai disordini con una brutale strategia di controinsurrezione che prevedeva uccisioni extragiudiziali, violenze sessuali e torture. Nel 2001, lo stesso Pakistan ha cercato di reprimere i gruppi militanti del Kashmir e li ha designati come organizzazioni terroristiche, pur continuando a mantenere il suo sostegno ufficiale al diritto all'autodeterminazione del Kashmir. (Il Pakistan è sempre stato convinto che la stragrande maggioranza dei kashmiri sarebbe favorevole all'adesione al Pakistan se potesse scegliere, ma questo non è più certo, poiché il malcontento per l'inflazione e la repressione ha accentuato il fascino delle forze nazionaliste che chiedono uno stato separato per il Kashmir). Tuttavia, questi gruppi kashmiri mantenevano profonde radici in Pakistan, il che li rendeva difficili da smantellare. Questa difficoltà è stata percepita dallo stato indiano come una riluttanza da parte del Pakistan a combattere il terrorismo, il che ha approfondito l'animosità tra i due paesi. La questione è finalmente diventata un punto caldo a livello globale nel 2019, quando il governo Modi ha abolito l'articolo 370, una disposizione che garantiva una notevole autonomia allo stato del Kashmir. Delhi ha affermato che si trattava semplicemente di un tentativo di normalizzare lo status politico del Kashmir, ma la maggior parte dei kashmiri lo ha visto come un attacco diretto alla loro identità e alle loro libertà civili. La resistenza è stata accolta con una repressione sempre più dura, che negli ultimi sei anni è riuscita a soffocare gran parte del dissenso pubblico. Il regime di Modi è riuscito ad affermare la propria vittoria, sostenendo di aver stabilizzato la situazione e ripristinato l'ordine nel territorio conteso. Solo gli attacchi di Pahalgam hanno minato questa narrativa. Tre fattori cruciali costituiscono lo sfondo del conflitto. Il primo, e più longevo, è la negazione del diritto all'autodeterminazione del popolo kashmiro. Il secondo è il carattere dei regimi di Delhi e Islamabad, entrambi ricorsi a metodi sempre più autoritari con l'indebolirsi della loro legittimità politica. Il terzo è la nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Cina, che ha ridefinito il ruolo della regione nel sistema mondiale. Insieme, queste dinamiche interconnesse hanno spinto l'India e il Pakistan verso il disastro. Come si sono sviluppate storicamente? L'India indipendente era inizialmente uno stato « dirigista » , guidato da una forte etica sviluppista ed egualitaria emersa dalla lotta anticoloniale. Il progetto di Nehru prevedeva un'ambiziosa politica industriale, il sostegno statale ai contadini del Paese e un approccio non allineato agli affari esteri. Nehru assunse un ruolo di primo piano nella Conferenza di Bandung del 1955 e divenne uno dei principali sostenitori della causa palestinese. Tuttavia, fin dall'inizio, questa visione soffrì di varie incongruenze. Nehru e il suo partito, il Congress, non riuscirono a intraprendere una radicale ristrutturazione della terra, delle caste e delle relazioni industriali. Le lotte dei contadini e dei lavoratori, in particolare quelle guidate dai comunisti, furono represse violentemente. Il presunto impegno dell'India nei confronti della solidarietà con il Terzo Mondo fu minato dalle guerre con la Cina (1962) e il Pakistan (1965-71), nonché dal suo rapporto colonialista con il Kashmir a partire dal 1948. Tali contraddizioni generarono una forte opposizione sia da parte della destra che della sinistra, aprendo la strada a nuovi movimenti basati sulla classe, la casta e la religione, che alla fine fecero a pezzi il consenso nehruviano. Il risultato fu il trionfo del Bharatiya Janata Party , un'organizzazione nazionalista indù di destra fondata su una profonda ostilità nei confronti dei musulmani e del Pakistan. Dopo aver ottenuto solo due seggi nelle elezioni del 1984, il BJP balzò alla ribalta nazionale dopo aver guidato la folla alla distruzione di una moschea che secondo loro era stata costruita sul sito dello storico tempio indù di Ayodhya. Quando all'inizio degli anni '90 il governo guidato dal Partito del congresso liberalizzò l'economia e smantellò lo Stato dirigista, molti influenti gruppi imprenditoriali si allinearono con questa corrente nazionalista indù in ripresa come alternativa alle forze organizzate di sinistra. Narendra Modi – ex ministro capo del Gujarat, accusato di aver supervisionato l'omicidio di oltre un migliaio di musulmani mentre ricopriva tale carica – è diventato l'incarnazione di questa « alleanza tra Hindutva e corporazioni » ed è stato eletto primo ministro nel 2014. Le multinazionali, da Microsoft e Amazon a CitiBank e JPMorgan Chase, hanno così sviluppato legami più stretti con l'élite indiana e aumentato gli investimenti nel suo mercato emergente. L'effetto è stato quello di globalizzare l'economia del Paese e contribuire a riorientare la sua politica verso Washington, culminato nell'incontro Modi-Trump all'inizio del 2025, in cui i due leader hanno firmato un « Partenariato di difesa tra Stati Uniti e India » . L'America ha dichiarato esplicitamente che il suo obiettivo è quello di rafforzare il contenimento della Cina trasformando l'India in un contrappeso regionale, un programma che Delhi abbraccia pienamente. Il governo di Modi spera che ingraziandosi gli Stati Uniti possa affermare l'India come potenza incontrastata della regione. Ciò, a sua volta, ha portato a un rafforzamento delle relazioni tra Israele e India, compresa la cooperazione militare e i piani per la costruzione del « corridoio economico India-Medio Oriente-Europa » per contrastare la Belt and Road Initiative cinese. Molti sostenitori dell'Hindutva hanno definito l'attacco di Pahalgam « il nostro 7 ottobre » e hanno chiesto che il Pakistan venga « ridotto a Gaza » . Il Pakistan è rimasto saldamente schierato con gli Stati Uniti sin da quando ha firmato i patti militari SEATO e CENTO con gli Stati Uniti nel 1954 e nel 1955. In prima linea nella strategia americana di contenimento del comunismo, il Pakistan ha beneficiato di ingenti aiuti americani durante tutto il periodo della Guerra Fredda. L'unica sfida seria all'egemonia statunitense dalla nascita dello stato è stata il governo di sinistra di Zulfikar Ali Bhutto, rovesciato da un violento golpe sostenuto dagli States nel 1977. Da allora, l'economia pakistana è fortemente dipendente dai proventi delle guerre imperialiste in Medio Oriente. Uno degli aspetti più oscuri di questa eredità è stata la cosiddetta « jihad afghana » , un'operazione clandestina sostenuta dalla CIA che ha trasformato il Pakistan in un campo-base per le organizzazioni militanti che combattevano contro il governo afghano sostenuto dall'Unione Sovietica durante gli anni '80. Alimentati dai dollari statunitensi e dal patrocinio saudita, migliaia di pakistani si sono uniti a una rete globale di militanti islamici che comprendeva centinaia di madrasse e campi di addestramento jihadisti. I politici pakistani hanno regolarmente utilizzato la minaccia dell'aggressione indiana per giustificare il processo di militarizzazione e securitizzazione – dipingendo qualsiasi forza di opposizione significativa come un agente di Delhi, rafforzando la morsa dell'esercito sulla politica – riuscendo a schiacciare il dissenso, in particolare nelle province ribelli del Balochistan e del Khyber Pakhtunkhwa. Con l'inizio della « guerra al terrorismo » , tuttavia, le priorità regionali degli USA sono cambiate. L’islamismo militante non era più un utile bastone contro il comunismo, ma il nemico numero uno dell'umanità. L'esercito pakistano è stato quindi costretto a invertire la politica di sostegno alle forze islamiste ed a iniziare a combatterle. Compito non semplice. I militanti erano ormai profondamente radicati nelle istituzioni statali, nella società civile e nelle reti transnazionali di traffico d'armi del Pakistan. La controinsurrezione degenera rapidamente in un bagno di sangue, causando la morte di 40.000 civili tra il 2001 e il 2018. Anche le relazioni strategiche del Pakistan con la Cina sono state sottoposte a crescenti tensioni con il mutare degli obiettivi degli Stati Uniti. Dopo la rottura sino-sovietica e la guerra sino-indiana del 1962, il Pakistan iniziò a coltivare stretti legami con la Repubblica Popolare Cinese come mezzo per contrastare il suo vicino orientale; Washington, che sotto Nixon aveva avviato un proprio riavvicinamento alla Cina, non si oppose. Fino al 2015, il Pakistan era ancora in grado di occupare una posizione privilegiata tra queste due potenze mondiali: aderendo al Corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC), un progetto multimiliardario, pur continuando a fungere da principale canale di rifornimento della NATO alle basi militari statunitensi in Afghanistan. Tuttavia, nell'ultimo decennio questo approccio sembra aver fatto il suo corso, poiché il Pakistan ha dovuto affrontare le pressioni incessanti degli Stati Uniti affinché abbandonasse le sue relazioni strategiche con la Cina e si allineasse chiaramente con l'Occidente. L'élite pakistana è divisa tra fazioni filo-occidentali e filo-cinesi, minacciando la capacità dello stato di pianificare a lungo termine. Poiché la sua posizione geopolitica di lunga data è diventata sempre più insostenibile, il regime pakistano ha anche subito una grave crisi di legittimità sul fronte interno. Sta lottando contro un'inflazione galoppante, compresi forti aumenti dei prezzi dell'energia, e severi tagli ai bilanci della sanità e dell'istruzione imposti dal FMI. Con Imran Khan e il suo partito PTI in corsa per vincere le elezioni dello scorso anno, il governo ha ricorso a brogli elettorali palesi per tenerlo lontano dal potere. Ha affrontato le proteste e le critiche che ne sono seguite incarcerando gli oppositori, tra cui Khan, e vietando i social media. Tutto ciò ha coinciso con l'intensificarsi degli attacchi dell'esercito separatista Baloch Liberation Army e del Tehreek-e-Taliban Pakistan , un'organizzazione militante di estremisti religiosi impegnati a rovesciare lo stato federale. Il popolo del Kashmir rifiuta di rinunciare al proprio diritto all'autodeterminazione, nonostante sia brutalmente represso dall'India e in gran parte abbandonato dal Pakistan, e continua a opporre resistenza con forme violente e non violente. L'aggressività dell'India è chiaramente legata ai calcoli elettorali del partito al potere, il BJP, la cui politica nazionalista indù si basa sulla punizione di vari gruppi « estranei » . Allo stesso tempo, il Pakistan è scivolato ulteriormente nel militarismo, accelerando la guerra contro gli oppositori interni e consolidando il ruolo dell'esercito come potere decisionale supremo, il che ha creato un consenso falco ai vertici dello stato. Infine, gli Stati Uniti sono determinati a trasformare l'India in un baluardo contro la Cina, mentre i cinesi stessi stanno cercando di impedire l'accerchiamento da parte dell'Occidente costruendo alleanze strategiche con paesi come il Pakistan. Queste dinamiche hanno ulteriormente destabilizzato le già tese relazioni tra India e Pakistan. Il fervore bellico può solo fornire una distrazione temporanea dalle profonde contraddizioni sociali che affliggono entrambi i paesi. L'agenda economica di Modi, basata sulla privatizzazione e la deregolamentazione, non ha dato risultati per la maggioranza degli indiani. Oggi, l'1% più ricco del paese detiene il 40% della ricchezza. I sindacati hanno indetto uno sciopero generale per il 6 giugno per protestare contro l'eccessivo potere del capitale aziendale, mentre gli agricoltori continuano a organizzare una forte resistenza comunitaria. Il governo non ha altra risposta che continuare la repressione dei musulmani e dei dissidenti, soprattutto in Kashmir, dove nelle ultime settimane sono state arrestate o rapite diverse persone nell'ambito di una vasta operazione di « controinsurrezione » . Il Pakistan, d'altra parte, rimane uno rentier state dipendente dalle guerre per procura e dalla supersfruttamento a breve termine, governato da un esercito che può mantenere il potere solo attraverso brogli elettorali. Le élite del Paese stanno ora progettando di vendere altre risorse naturali e di aprire il territorio alle compagnie minerarie internazionali, nella speranza che maggiori investimenti stranieri possano arrestare la spirale economica in corso. L'anno scorso, una versione di questo programma è stata introdotta nella provincia del Sindh, dove il governo ha tentato di deviare sei canali del fiume Indo per attirare capitali stranieri nel settore dell'agricoltura industriale; il progetto è stato poi bocciato da un movimento di massa che ha portato in piazza milioni di persone. Per evitare il ripetersi di questo scenario, il governo sta intensificando la repressione in altre zone che intende saccheggiare. Gruppi come l' Awami Action Committee , un piccolo partito politico della regione himalayana del Gilgit-Baltistan che ha criticato apertamente questo programma di appropriazione delle terre, sono stati messi al bando e i loro attivisti arrestati. Resta da vedere se il governo riuscirà a mettere a tacere i suoi critici con tali mezzi coercitivi. Non c'è dubbio che nei prossimi anni la lotta contro l'estrazione mineraria senza consenso diventerà uno dei principali punti focali dell'opposizione al regime militare. Il trattamento severo riservato ai dissidenti dimostra quanto il discorso sull'«unità nazionale» –utilizzato sia dall'India che dal Pakistan nelle ultime settimane – sia in contrasto con la realtà della regione: povertà, disuguaglianza, predazione. Dunque, l'escalation militare all'estero è legata all'irrigidimento del potere statale all'interno. In questa regione di due miliardi di persone, ben il 40% vive ancora al di sotto della soglia di povertà, subendo il peso del sottosviluppo e dei conflitti comunitari. Solo agendo contro lo sfruttamento potranno cambiare le condizioni che conducono alla guerra.
- post-poetica
Serie limitrofa Greco Un testo di Luca Zanini 1 tendere l'orecchio" le] persone dentro] i libri contabili] non per esempio non impressionano la pellicola sono in sottoscale fanno gli anniversari con]" lo stucco dorato la sparachiodi hanno i sensi vietati il quartiere chiuso d'inverno le allergie fanno il resto reati rapidi lo [fanno 2 forever sta nelle scritte dappertutto i] cavi lasciati nelle pozze dei semi alleggeriscono – o i draghi flambè dei cinesi e del monopoli il marcapiano un soggetto a caso degli anni settanta si studia e si prende [le misure consultando il manuale si notano di più 3 una più densa matassa-i fori le porte girevoli – i manager di carrube amano i -flutti le acerbe ricorrenze con fondi statali possono rimanere gli anni migliori nella sezione lo] scambio per i superflui [l'ordine del – a capo alla televisione danno [i] tàssi d'interessante stress delle pasticche eurovisione con bandierine 4 patteggia armeggiano – o] un dato preciso non si può fare caduti i termini anche] i più cauti distribuiscono non c'è la consegna la catena inceppa una debolezza una carta fluorescente. A] rivelare i cani dai terrazzi Luca Zanini , Bergamo bassa, 1963. Scritture di ricerca, alcuni riferimenti: slowforward.net (fa parte della redazione) https://slowforward.net/tag/luca-zanini/ ; suoi materiali in gammm.org , ilcucchiaionellorecchio.it , lamorteperacqua.wordpress.com , utsanga.it , multiperso.wordpress.com , pontebianco.noblogs.org , compostxt.blogspot.com , e in altri spazi, come Utopie del desiderio , Esiste la ricerca / MTM - manifatture teatrali milanesi, Poème de Terre. La sequenza Delle vite scientifiche è leggibile in mastodon.uno/@gregorsx . Una serie di materiali continui e discontinui è in noblogo.org/lucazanini/ . Altre partecipazioni: L’intervallo#382 di Antonio Syxty, 2024, Briefe in «Bina» n. 83, La parola s’industria, in «l’immaginazione», n. 326, 2021. Sotto_controllo, in «l’immaginazione», n. 342, 2024. Un testo in Multiperso, antologia di microfinzioni (pièdimosca, 2022) e L’ordine sostituito (déclic edizioni, 2024). Su invito è presente a RicercaBO 2015 Laboratorio di nuove scritture. Ha letto anche nella rassegna Riassunto di Ottobre, voci della scrittura contemporanea, Bologna, 2017.
- exlet
Casino Conolly di Mariangela Guatteri Tzara O Hâra Casino Conolly di Mariangela Guatteri esplora il legame tra spazio, potere e linguaggio attraverso la descrizione di edifici dell’ex manicomio San Lazzaro di Reggio Emilia, trasformati in dispositivi di controllo. Con una prosa che simula il linguaggio tecnico, il libro denuncia la violenza del potere istituzionale e la sua incidenza sui corpi e sulla lingua. L’osservazione critica di Antonio Francesco Perozzi evidenzia come la scrittura stessa diventi campo di resistenza e interrogazione del dominio. Osservazione critica Forse è anche pensando al Foucault di Sorvegliare e punire , e all’Agamben di Che cos’è un dispositivo? , che ci si può avvicinare filosoficamente a Casino Conolly di Mariangela Guatteri, pubblicato da il verri nel 2024. Le prose che lo compongono sono del resto tutte legate alla sovrapposizione inquietante tra potere, luogo e lingua: ogni capitolo del libro ( Villino svizzero, Villa Valsalva, Villa di salute Esquirol …) fa riferimento a un edificio del vecchio ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia e ne descrive, mettendole in relazione, l’architettura e le attività che in quegli edifici si svolgono. Ciò che si attraversa sfogliando il libro, dunque, non è solo una forma aliena di topografia; è soprattutto un campionario delle modalità con cui il luogo incide sulle persone e attiva un meccanismo di potere. Gli edifici acquisiscono quindi lo status di dispositivi, si identificano con la propria funzione e la propria ragione, che non è abitativa: nella Sezione Lombroso , ad esempio, «non basta lo stato di morte, ci vuole, per restare coerenti, un’esperienza di mortificazione della carne per potersi riunire nuovamente a sé»; nella Colonia-Scuola Marro l’esercizio fisico serve «per modificare la tendenza dell’umano alla perversione» e quindi a una «modificazione dello spazio di esistenza»; per la Villa di salute Esquirol «la villa, la strada che arriva alla villa e il muro che la circonda sono opere del metodo umano». Al di sotto dei luoghi, insomma, e tramite essi, agisce la necessità di una rieducazione e reintegrazione forzata del patologico, per via di «un lento assoggettamento tecnico delle energie naturali». E a questo assoggettamento consegue l’interdipendenza tra gli umani che subiscono il trattamento – slavati, spersonalizzati, senza nome – e l’edificio, da cui a un certo punto non possono più prescindere («Se si tenta di uscire da questo spazio contrattuale si perde identità. Uscendo dal progetto si muore per sempre.»). È importante tuttavia evidenziare lo strumento linguistico con cui Guatteri esplora questa violenta opera di condizionamento antropologico. Pur riferendosi a una realtà storicamente accertabile, e pur avendo le potenzialità tematiche del racconto espressionista, Casino Conolly rifiuta sia il reportage sia la storiografia sia l’intreccio narrativo; e, con essi, ogni forma di pathos testimoniale o drammatico. La prosa di Casino Conolly simula e/o preleva quella del manuale tecnico e, secondo un meccanismo frequente nella scrittura di ricerca, la porta in primo piano con effetto straniante (non a caso il libro si chiude con delle Tavole sinottiche asemiche, che andranno perciò lette non come appendice visiva, bensì come controprova dell’inaffidabilità, non leggibilità, in un certo senso, della scrittura). La liquidità del dettato, la linearità dei suoi ragionamenti e delle sue descrizioni, insomma, mimano contemporaneamente il rigore dell’argomentazione saggistica e il candore della coercizione, suggerendo come tutta l’operazione vada guardata nell’inscindibilità tra potere esercitato sui corpi e potere esercitato sulla lingua. Alla (post-)poesia, allora, il compito di stralunare una lingua che risulta al servizio del potere proprio nel suo (presunto) uso neutrale. Testi Figura 7. La famiglia dei serventi Gli uomini hanno una divisa. Le donne una sopraveste. La libertà è subordinata a una certa legge e disciplina. I letti sono tutti di noce col saccone alto, la coperta a dadi bianchi e turchini. Camere di forza, letti di forza, bagnarole di forza, pettorali, guanti, cinturoni, muscoliere, collari. Un’ultima ripulita di questi arnesi nell’alto di una parete a forma di bassorilievo. Parentesi d’ombra Confitti in camicia, incamiciolati. Una redenzione. Nei giusti limiti il sistema della libertà e della fiducia. Camere tutte lucide veramente areate, in mezzo ai prati, ai campi. Sono tutti liberi, sciolti. Il terminale Nelle loro residenze a 3 piani i dipendenti ripetono l’esercizio ogni giorno, 3 volte al giorno, per 30 giorni. Ogni esercizio comporta 6 prostrazioni in ginocchio. 6 volte il ginocchio si piega tentando di appiattire l’angolo tra la gamba e la coscia, e altrettante si rialza di 90 gradi. Devono contare ogni genuflessione, il numero di volte che piegano e raddrizzano il ginocchio. Questo è un modo efficace per modificare la tendenza dell’umano alla perversione che si manifesta in esistenze ostinate che si ritengono dedite alla costanza, stabili nelle abitudini; ma è ostinazione. Umani pieni di certezze, soprattutto affamati di emozioni. Per tale motivo il metodo prescritto prevede di spostare la percezione dello spazio nella dimensione del tempo, precisamente in quello sequenziale: una sequenza prescritta di una ritualità a termine. Terminale del medicamento è la conclusione di un processo a gradini dove l’inizio del piegamento – che è sottomissione –, la conclusione del piegamento – che è la causa della sottomissione – e daccapo ripetutamente, producono il ribaltamento totale, cioè la liberazione. Ecco il terminale! Si passa da una dimensione all’altra, dallo spazio al tempo, dal movimento perpetuo della follia all’arresto della mente. Tutti i segni di queste pieghe sono ora impressi nella memoria dei muscoli, sul sistema nervoso e su tutti gli altri plessi, compreso quello respiratorio. Tutto si riassume in una naturalità che infine ha una sua grazia, e non sembra neppure rieducata. L’articolazione Allenatore – Tra parentesi, in francese, il ginocchio è indicato da una parola che si pronuncia jenù , un suono che significa anche Io ( Je ) Noi ( Nous ). Quando le ginocchia diventano improvvisamente dolenti o bloccate, è forse in atto una crisi che ha a che fare con una relazione umana importante che si è disarticolata. Questo lo sentii dire per la prima volta direttamente dalla bocca di Monsieur MB . In pratica la questione si può affrontare indipendentemente dalla lingua con cui si indica il ginocchio. Il linguaggio si articola e si disarticola. Il francese è un esempio che calza a pennello, io-noi è proprio come un ginocchio: una parola sola per indicare qualcosa visto come unità: il noi . Ma il ginocchio non esiste se non ci sono almeno due elementi che si articolano – magari qualche altro osso di complemento –, quindi, se uno dei, poniamo, due elementi si disarticola ovvero uno degli io se ne va – magari morendo ma anche no –, l’articolazione è compromessa il ginocchio non funziona. Magari poi si mette una protesi o un chiodo che ne scaccia un altro, o si fa un ritiro spirituale. Non c’è più questo ginocchio! – magari ce ne sarà un altro. Un altro noi. Insomma, un ginocchio che perde la dignità di ginocchio di disperde – magari si alcolizza, va in coma etilico, lo attaccano a un tubo lo nutrono a forza gli pompano il sangue e una serie di altri protocolli o magari lo lasciano lì –, è nullo. Bibliografia Agamben G., Che cos’è un dispositivo? , Nottetempo, Roma, 2006. Foucalt M., Sorvegliare e punire , Einaudi, Torino, 2003. Guatteri M., Casino Conolly , il verri, Milano, 2024. Antonio Francesco Perozzi (Subiaco, 1994) vive in provincia di Roma e insegna nella scuola secondaria. Ha pubblicato Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022), bottom text (in Poesia contemporanea . Sedicesimo quaderno italiano , marcos y marcos, 2023), soluzioni per ambienti (Zacinto, 2024), on land (Edizioni Prufrock Spa, 2024) e Tranquillità assoluta (Pidgin, 2025). Collabora con varie riviste tra cui «Il Tascabile» e «Le parole e le cose». Cura il blog «La morte per acqua» e il podcast «Spara Jurij».
- konnektor
Iran e Israele di fronte all'ordine geopolitico occidentale Donata Vanerio L'Iran si trova di fronte alla volontà delle potenze occidentali di distruggere ogni dissenso al proprio feroce ordine economico, sociale e geopolitico, mantenuto a tutti i costi nella profonda irrazionalità e palese ingiustizia – da Gaza alle politiche migratorie alla gestione del cambiamento climatico o all'approfondimento delle disuguaglianze –. Decenni di politica aggressiva da parte delle potenze statunitensi ed europee nella regione – che hanno lasciato un'enorme scia di sangue e una pericolosa destabilizzazione in Medio Oriente e nel sistema capitalista globale – non hanno prodotto alcun cambiamento nella postura dell'Occidente. Questo articolo è apparso su Sidecar , il blog della New Left Review , rivista bimestrale pubblicata a Madrid dall' Instituto Republica & Democracia di Podemos e da Traficantes de Sueños , ed è pubblicato con l'espressa autorizzazione del suo editore. L'allargamento della guerra dalla Palestina all'Iran, iniziata il 13 giugno, evidenzia un'ossessione israeliana che dura da quattro decenni. Mentre l'amministrazione USA negoziava in malafede con l'Iran sul suo programma nucleare, il regime israeliano ha approfittato di una pausa nei negoziati per bombardare Teheran, assassinando scienziati di spicco, un alto militare e funzionari, alcuni dei quali partecipanti attivi ai colloqui. Dopo diverse smentite poco convincenti, Trump ha ammesso che gli Stati Uniti fossero informati in anticipo dell'attacco. Ora l'Occidente appoggia l'ultima offensiva di Israele, nonostante ciò che Tulsi Gabbard, il direttore dell'intelligence nazionale nominato dal thycoon , abbia dichiarato il 25 marzo: «La comunità dei servizi [che riunisce le attività delle diciotto agenzie di spionaggio statunitensi, tra cui la CIA e la NSA] continua a credere e a ritenere che l'Iran non stia costruendo un'arma nucleare e che il leader supremo Khamenei non abbia autorizzato il programma di armi nucleari, che ha sospeso nel 2003». Gli ispettori dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica sanno perfettamente che non esistano armi nucleari. Hanno semplicemente agito come insider complici di Stati Uniti e Israele, fornendo i ritratti degli scienziati senior, uccisi nei raid. L'Iran si è tardivamente avveduto dell’insensatezza della loro presenza nel paese, redigendo un dispositivo normativo per l’espulsione. I leader non avevano nulla da guadagnare sacrificando questa parte della propria sovranità, ma si sono aggrappati alla flebile speranza, per metà pura convinzione, che – se avessero fatto ciò che volevano gli americani – avrebbero potuto ottenere la revoca delle sanzioni e una pace garantita dagli States. Il passato in tal senso non è stato foriero di buoni consigli. Il governo eletto dell'Iran fu rovesciato nel 1953 con l'aiuto occulto di Stati Uniti e Gran Bretagna e l’opposizione laica interna fu distrutta. Quando, dopo un quarto di secolo di dittatura sostenuta dall'Occidente, la dinastia Pahlavi fu finalmente rimossa – un anno dopo la rivoluzione del 1979 – l'Occidente, di concerto con l'Arabia Saudita e il Kuwait, finanziò l'Iraq per lanciare una guerra contro l'Iran e rovesciare il nuovo regime. Otto anni, mezzo milione di morti, la maggior parte iraniani. Centinaia di missili iracheni colpirono città e obiettivi produttivi, per lo più petroliferi. Nelle battute finali, gli Stati Uniti distrussero quasi metà della marina iraniana nel Golfo e – non modo, sed etiam – abbatterono un aereo di linea civile. La leale Gran Bretagna contribuì ad insabbiare il tutto. Da allora, la politica estera della Repubblica islamica ha sempre messo al centro la sopravvivenza del regime. Durante la guerra Iran-Iraq, i chierici non hanno esitato a comprare armi dai nemici dichiarati, compreso Israele. La solidarietà con le forze di opposizione è stata frammentaria e opportunistica, priva di una strategia antimperialista coerente, se non quella dimostrata nel ruolo solitario – ma cruciale – di difensori dei diritti dei palestinesi in una regione in cui tutti i governi arabi hanno capitolato di fronte alla potenza egemone. Il 15 giugno, poco dopo l'attacco israeliano, si è svolta a Gaza una straordinaria processione di più di cinquanta asini, guarniti e drappeggiati con mantelli di seta e raso; mentre venivano condotti per le strade, i bambini li accarezzavano con autentico affetto. Perché? «Perché – ha spiegato l'organizzatore – ci hanno aiutato più loro di tutti gli Stati arabi messi insieme». Dopo le invasioni dell'Afghanistan e dell'Iraq a guida stelle e strisce, gli iraniani speravano senza dubbio che – dopo aver collaborato con Washington al rovesciamento di Saddam Hussein e del Mullah Omar – questo avrebbe dato loro un po' di respiro. Per molti versi, la "guerra al terrorismo" non è stata una circostanza sfavorevole per la Repubblica islamica. Il suo prestigio nella regione è salito insieme ai prezzi del petrolio, i suoi nemici a Baghdad e Kabul sono stati brutalmente eliminati e i gruppi sciiti che aveva sostenuto dal 1979 sono saliti al potere nel vicino Iraq. È difficile credere che né il Politbjuro di Bush (Cheney, Rumsfeld, Rice) né i consiglieri arabi non ufficiali con sede negli Stati Uniti (Kanaan Makiya, Fouad Ajmi) potessero prevedere questo esito, ma sembra che sia stato così. Il primo straniero non occidentale a visitare la Zona Verde come ospite d'onore è stato il Presidente Ahmadinejad. Sia i nazionalisti sunniti che quelli sciiti si sono uniti per opporsi alle forze di occupazione, lanciando razzi e mortai contro l'ambasciata statunitense. È stato l'intervento dello Stato iraniano a dividere questa opposizione, facendo sì che un movimento di resistenza unito degenerasse in una guerra civile auto-distruttiva. Muqtada al-Sadr, uno dei principali leader sciiti in Iraq, era rimasto scioccato dalle atrocità di Fallujah e aveva guidato una serie di rivolte popolari contro la coalizione statunitense. Al culmine del conflitto, fu invitato a visitare l'Iran e finì per rimanervi – per esservi detenuto – nei successivi quattro anni. L’ingresso dell'ISIS sul campo di battaglia poi ha rafforzato questa alleanza tattica tra USA e Iran, con il Pentagono a fornire supporto aereo ai 60.000 militanti sciiti sul campo. La maggior parte di queste forze era sotto il comando indiretto di Qassem Soleimani, in regolare comunicazione con il generale David Petraeus. Soleimani era uno stratega di talento, ma suscettibile alle lusinghe, soprattutto da parte del Grande Satana. È stato il principale ideologo di Teheran dopo l'11 settembre, ma la vanità ostentata con le controparti statunitensi ne ha alienato alcune, soprattutto quando ha spiegato nei dettagli come gli iraniani avessero previsto e sfruttato la maggior parte degli errori dell'America nella regione. La descrizione di Spencer Ackerman è appropriata: «È stato abbastanza pragmatico da cooperare con Washington quando ciò si adattava agli interessi iraniani, come nel caso della distruzione del Califfato, e disposto a confrontarsi con Washington quando ciò si adattava agli interessi iraniani, come nel caso del sostegno di Soleimani a Bashar al-Assad in Siria o, prima, quando ha introdotto modifiche agli ordigni esplosivi improvvisati che hanno ucciso centinaia di soldati statunitensi e ne hanno mutilati molti altri. L'impunità di Soleimani ha fatto infuriare lo Stato di sicurezza e la destra. Il suo successo ha fatto male». Tuttavia, mentre il potere regionale dell'Iran cresceva, le tensioni interne erano in aumento. La Rivoluzione aveva alimentato speranze disattese poi dal conflitto con l'Iraq. Anche per questo motivo, l'Iran ha adottato una posizione più dura sulla questione nucleare, affermando il proprio diritto sovrano di arricchire l'uranio e galvanizzando così la sfiancata popolazione. In politica estera, aveva e ha uno scopo difensivo perfettamente logico: il paese si trova in una posizione vulnerabile, circondato da stati atomici – India, Pakistan, Cina, Russia, Israele – e da basi statunitensi con arsenali nucleari potenziali o effettivi in Qatar, Iraq, Turchia, Uzbekistan e Afghanistan. Portaerei e sottomarini statunitensi equipaggiati di testate atomiche pattugliano le acque al largo della sua costa meridionale. In Occidente si è completamente dimenticato che il programma nucleare fosse un'iniziativa del Sah lanciata negli anni '70 con il sostegno degli USA. Una delle società coinvolte era un feudo dello squallido Cheney – vice di Bush. Quando Khomeini è salito al potere ha bloccato il progetto ritenendolo non islamico, ha in seguito ceduto e le operazioni sono riprese. Con l'intensificarsi del programma a metà degli anni 2000, l'Iran e la sua Guida suprema hanno solo potuto constatare quanto l’Iran non si fosse spostato dal mirino di Washington. La Casa Bianca di Bush trasmetteva l'impressione che in qualsiasi momento ci sarebbe potuto essere un attacco all'Iran, diretto o per il collaudato proxy regionale, Israele – oppositore dal canto suo a chiunque ne sfidasse il monopolio nucleare in Medio Oriente –. Il governo israeliano e le sue fedeli reti mediatiche hanno descritto il leader iraniano come uno “psicopatico”, un “nuovo Hitler”. Una crisi, questa, confezionata in fretta e furia: specialità occidentale. Gli Stati Uniti dispongono dell’atomica, così come UK, Francia ed – appunto – Israele; eppure il perseguimento da parte dell'Iran della tecnologia necessaria per il livello più elementare di autodifesa ha provocato un panico morale. Mentre le potenze europee si affannavano a migliorare la posizione nei confronti di Washington dopo l'invasione dell'Iraq, Francia, Germania e Gran Bretagna erano ansiose di dimostrare il proprio valore costringendo Teheran ad accettare limiti severi all’attività nucleare. Il regime di Khatami capitolò immediatamente, immaginando di essere invitato a uscire dall'isolamento e dall'ostilità quasi totale. Nel dicembre 2003 l'Iran ha firmato il “Protocollo aggiuntivo” richiesto dall'UE-3 (Germania, Francia e Regno Unito), accettando una sospensione “volontaria” [sic!] del diritto all'arricchimento garantito dal Trattato di non proliferazione nucleare. Ancora, nulla di fatto: nel giro di pochi mesi, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica condannò l'Iran per non averlo ratificato, mentre Israele si vantava dell’intenzione di “distruggere Natanz”. Nell'estate del 2004, un'ampia maggioranza bipartisan del Congresso americano approvò una risoluzione per adottare «tutte le misure appropriate» per impedire il programma di armamento dell'Iran e si ipotizzò una «sorpresa di ottobre» in vista delle presidenziali di quell'anno. All'epoca, ho sostenuto sul Guardian che «affrontare i nemici schierati contro l'Iran richiede una strategia intelligente e lungimirante, non l'attuale miscuglio di opportunismo e manovre, determinato dagli interessi immediati dei chierici». Diversi intellettuali iraniani liberali e socialisti hanno risposto da Teheran per esprimere il loro forte accordo, soprattutto con le mie conclusioni: «L’aver spianato la strada al rovesciamento del regime baathista iracheno e di quello talebano afghano, oltre ad aver appoggiato le occupazioni statunitensi, non ha dato tregua all'Iran. Il vice segretario di Stato americano ha parlato di “aumentare la pressione”. Il Ministro della difesa israeliano Shaul Mofaz ha dichiarato che “Israele non accetterà che l'Iran abbia risorse nucleari. Da parte nostra, dobbiamo avere la capacità di difenderci con tutto ciò che questo comporta e va da sé che ci stiamo preparando per questa eventualità”. Hillary Clinton ha accusato l'amministrazione Bush di “minimizzare la minaccia iraniana” e ha chiesto di fare pressione su Russia e Cina per imporre sanzioni a Teheran. Chirac ha parlato di usare le armi nucleari francesi contro uno “Stato canaglia” come l'Iran. Forse si tratta semplicemente di retorica guerrafondaia, volta a spaventare Teheran e a costringerlo alla sottomissione. È improbabile che l'intimidazione abbia successo, quindi l'Occidente si imbarcherà in una nuova guerra?» La politica estera degli Stati Uniti è stata perfettamente riassunta dalla laconica dichiarazione di Bush nel 2003: «Se non siete con noi, siete contro di noi». Gran Bretagna, Canada, Israele, Arabia Saudita ed Australia non avevano bisogno di essere convinti. Ad oggi, l'Iraq non ha riacquistato la stabilità sociale ed economica prima del “cambio di regime”: più di un milione di vittime e cinque milioni di orfani sono stati il prezzo che dopo che il governo è stato falsamente accusato di possedere armi di distruzione di massa. Le compagnie occidentali ora si appropriano, in modo più o meno irregolare, della maggior parte del petrolio iracheno. A Gaza, poi, l'orrore continua. Bombe, morte, fame e una crudeltà che ricorda il trattamento riservato dalla Wehrmacht nazista agli Untermenschen – sottoproletari – slavi. Il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato un editoriale, più duro di una qualsiasi delle testate liberali della zona euro-atlantica, attaccando la patetica decisione dei leader europei di sanzionare solo i due “fascisti dichiarati” del governo di Netanyahu, chiedendo invece sanzioni complete contro Israele. Questo è ciò che i veri sostenitori di Israele dovrebbero chiedere, invece di incoraggiarne la politica kamikaze e le campagne genocide . Dopo il successo nel radere al suolo la Striscia di Gaza e sterminarne decine di migliaia di abitanti, il governo Netanyahu ha chiaramente ritenuto che fosse giunto il momento di espandere il conflitto ad altri obiettivi. La prima è stata la campagna dell'esercito israeliano contro Hezbollah, che ha ucciso gran parte della sua leadership e ha lasciato l'organizzazione gravemente indebolita, sottomettendo il Libano – e non c'è quindi da stupirsi se da allora i giovani libanesi salgano sui tetti delle case per applaudire i droni iraniani –. Poi è stata la volta della Siria, dove Israele ha lanciato diversi attacchi senza fingere nemmeno di essere in assetto di difesa. In collaborazione con la Turchia poi – membro della NATO – e con i resti dell'apparato baathista, ha contribuito all'installazione di un governo fantoccio sotto il comando di uno scagnozzo statunitense ben addestrato, l'ex agente di Al Qaeda Jolani. La scena era pronta per l'assalto all'Iran. Come sempre, i doppi standard occidentali entrano in gioco quando si tratta d’Israele. Non ha aderito al Trattato di non proliferazione nucleare, non ha firmato la Convenzione sulle armi biologiche o la Convenzione di Ottawa sulla proibizione della produzione, dello stoccaggio e dell'uso di mine personali. Ancora, non ha ratificato la Convenzione sulle armi chimiche e ha ignorato il diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite per decenni. Un record, che ora è aggravato dai mandati di arresto emessi dalla Corte internazionale di giustizia contro Netanyahu e Gallant per crimini di guerra e crimini contro l'umanità, oltre a un'indagine in corso per genocidio... Questo sì che è l'aspetto di uno stato canaglia. Attualmente Iran e Israele comunicano tramite droni, F35 e missili. Sia Teheran che Tel Aviv sono state colpite. L'obiettivo israeliano dichiarato di distruggere i reattori nucleari non è stato raggiunto e il vanto di Bibi di provocare un cambiamento di regime ha avuto l'effetto opposto. Le donne senza hijab hanno manifestato per le strade scandendo «Brandite l’atomica!» Una di loro ha detto a un giornalista: «In parlamento stanno discutendo della chiusura dello Stretto di Hormuz. Non c'è bisogno di discuterne. Deve essere chiuso e basta». Trump insiste che la guerra potrà finire solo quando Teheran si arrenderà completamente. Molti iraniani ora credono che i recenti negoziati sul nucleare non siano stati altro che una manovra diversiva. Tattiche simili per realizzare l'assassinio di Soleimani nel 2020, convincendo il primo ministro iracheno a mediare i colloqui tra Stati Uniti e Iran per attirare il generale a Baghdad. Gli iraniani finora hanno resistito all'attacco. È Israele il paese che ha urgente bisogno di un cambio di regime. Note Del medesimo autore si consiglia la lettura di Lands Conquered in NLR n. 151 e The Roads to Damascus in Red Journal. Ancora: di Eskandar Sadeghi-Boroujerdi, Iran e Israele sull'orlo del baratro in Diario Red; Controllo dei danni nella Repubblica Islamica dell'Iran e Le regole del gioco in El Salto . Di Souleiman Mourad, Hezbollah imbrigliato in Red Newspaper . Di Susan Watkins, Il Trattato di non proliferazione contro le armi nucleari in NLR n. 54.
- konnektor
Terroristi Donata Vanerio Proponiamo un nuovo articolo di Alessandro Stella, pubblicato su Lundimatin , che analizza criticamente l’uso del termine terrorismo . L'autore evidenzia come questa parola venga spesso impiegata per etichettare, screditare e criminalizzare gli oppositori politici, oltre che per legittimare interventi militari e guerre in diverse parti del mondo. Questa strategia comunicativa è trasversale e viene adottata tanto dai regimi democratici quanto da quelli autoritari. Torniamo così a puntare l’attenzione sulla Palestina, dove i riflettori sono nuovamente accesi: i bombardamenti sulla Striscia di Gaza continuano senza sosta, mentre circa 6.000 prigionieri palestinesi restano detenuti nelle carceri israeliane. Dal 7 ottobre 2023, quando i militanti di Hamas e di altri gruppi della resistenza palestinese hanno sfondato in vari punti i muri del ghetto-prigione a cielo aperto che li rinchiudeva da 17 anni, per poi colpire a morte 1200 israeliani tra militari e civili e rapirne 240, il mondo intero è chiamato a qualificare questi atti come terroristici. Chi non lo farebbe si renderebbe complice dei suddetti terroristi e sarebbe condannato al silenzio e all'infamia pubblica. È evidente che uccidere non solo soldati – ma anche altri uomini, donne e bambini – sia un'azione terroristica. Secondo il Larousse: «il terrorismo è un insieme di atti di violenza (attentati, prese di ostaggi, et cœtera) commessi da un'organizzazione per creare un clima di insicurezza, esercitare un ricatto su un governo o soddisfare un odio nei confronti di una comunità, di un paese, di un sistema». Il significato non ammette ambiguità: è ben più che fare paura, è inculcare terrore nell’altro, nel nemico designato. Seguendo questa definizione, è patente che le azioni commesse il 7 ottobre 2023 dalla Resistenza palestinese siano state azioni terroristiche. Allo stesso tempo, dovrebbe essere altrettanto ovvio qualificare i bombardamenti indiscriminati dell'esercito israeliano su Gaza, che – dalla fatidica data – hanno già ucciso e ferito almeno dieci volte più palestinesi, come atti terroristici. Distruggere con le bombe interi quartieri, seppellirne sotto le macerie gli abitanti, bombardare ospedali, scuole, luoghi di culto, affamare, privare d'acqua, spingere le popolazioni all'esodo, sono ovviamente atti terroristici.Allora perché tutti i media mainstream d'Europa e degli Stati Uniti riprendono e rimbalzano la distinzione posta dal governo israeliano e dai capi di Stato occidentali, parlando di «terrorismo di Hamas» e della «inevitabile risposta», della «legittima difesa di Israele», della «guerra Israele-Hamas»? Basterebbe volgere lo sguardo verso i paesi d'Africa, d'America Latina, d'Asia, dove non solo le popolazioni ma anche i loro leader rifiutano questa dicotomia semantica di parte. È che, dalla sua invenzione e utilizzo, la qualificazione di terrorismo ha servito a delegittimare e criminalizzare individui e gruppi di opposizione ai regimi in carica che hanno fatto ricorso alla violenza. Passando oltre l'etimologia del lemma, che lo farebbe risalire all'epoca giacobina – alla ghigliottina – al terrore esercitato dallo Stato francese post-rivoluzionario, «terrorista» è stato utilizzato in Europa per più di un secolo prima per designare gli anarchici regicidi, poi i resistenti ai nazisti e fascisti, poi i resistenti algerini e altri militanti dei movimenti anti-colonialisti, successivamente applicato ai militanti dell'ETA, dell'IRA, della RAF, delle Brigate Rosse, di Action Directe. Ma – ed è importante sottolinearlo in questo momento storico – anche per stigmatizzare gruppi sionisti (in particolare l'Irgoun, guidato da Menahem Begin dal 1944 al 1948) che combattevano contro il colonialismo britannico in Palestina. Poi contro i resistenti palestinesi alla colonizzazione sionista (Fatah e Yasser Arafat). La traiettoria, il destino di questi due uomini – Menahem Begin e Yasser Arafat – illustra compiutamente la questione del cosiddetto «terrorismo». Begin, il 22 luglio 1946, coordinò l'attentato dell'Irgoun contro l'hotel King David a Gerusalemme che causò 92 morti, tra cui 28 britannici, 41 arabi, 17 ebrei e 5 non censiti. Begin è stato anche considerato responsabile del massacro di Deir Yassin, il 9 aprile 1948, con un bilancio di oltre100 palestinesi nel villaggio prossimo a Gerusalemme. Impegnato nella guerra del 1967, divenne poi Primo ministro di Israele, negoziando gli accordi di pace con l'Egitto e, nel 1978, ricevette perciò il premio Nobel per la pace.Quanto a Yasser Arafat, dopo trent'anni di lotta contro lo Stato colonialista di Israele, dall'Egitto a Gaza, dalla Cisgiordania alla Giordania, dalla Siria al Libano, classificato come «terrorista» per decenni, ricevette anch'egli il premio Nobel per la pace nel 1994, insieme a Shimon Peres e Yitzhak Rabin, per gli accordi di Oslo. Allora? Fin dall'inizio «terrorismo» è sempre stato utilizzato dalle Istituzioni per designare, screditare, criminalizzare gli oppositori che – vessati, discriminati, esclusi, uccisi e imprigionati – hanno finito per imbracciare i fucili per difendersi. Ogni Stato ha costruito i propri terroristi per delegittimare i propri oppositori, per poterli annientare, per mantenersi al potere. La nazione turca ha designato così il PKK; la Siria le SDF e le YPG; la Russia i ribelli ceceni. Ancora, per la Cina lo sono i resistenti uiguri, per il Myanmar i resistenti rohingya, le FARC in Colombia, il Sendero Luminoso in Perù, il FPMR in Cile et cœtera. Lo Stato di Israele ne ha fatto una strategia sistemica – estensiva ed eccessiva – contro Fatah, FPLP, Hamas, la Jihad islamica. Fino a dichiarare – nell'ottobre 2021, sotto il governo di Naftali Bennett-Yaïr Lapid – «terroriste» sei ONG palestinesi a difesa dei diritti umani. È per ciò, con scandalo, che l'AFP ha tratto le conclusioni e recentemente dichiarato che: «L'uso della parola terrorista è estremamente politicizzato e sensibile. Molti governi qualificano di organizzazioni terroristiche i movimenti di resistenza o di opposizione nei propri paesi. Molti movimenti o personalità provenienti da una resistenza un tempo qualificata come terroristica sono stati riconosciuti dalla comunità internazionale e sono diventati attori centrali della vita politica del proprio paese. L'AFP non descrive gli autori di tali atti, passati o presenti, come “terroristi”. Ciò include gruppi come l'ETA, i Tigri di Liberazione dell'Eelam Tamil, le FARC, l'IRA, Al-Qaeda e i vari gruppi che hanno condotto attacchi in Europa nel secolo scorso, tra cui le Brigate Rosse, la Banda Baader Meinhof e Action Directe» [1]. n effetti, per poter parlare liberamente di terrorismo (un approccio in principio osteggiato nei nostri Stati di diritto, dove la libertà di espressione è suppostamente sacra e iscritta nella Costituzione) bisognerebbe rimuovere i segni “più” e “meno”, gli attributi “legale” e “illegale”, “istituzionale” e “non istituzionale”. Solo a queste condizioni si potrebbe allora guardare a tutti i massacri che hanno avuto luogo nella storia senza allinearsi sulla versione fornita dai poteri dominanti. Soprattutto, bisognerebbe poter parlare di terrorismo di Stato, ben più potente e mortale del terrorismo praticato dai suoi oppositori. Così potremmo leggere diversamente i massacri di massa di popolazioni civili, commessi da Stati e dalle loro armate in nome delle «imperiose necessità della guerra». Come, ad esempio, i bombardamenti delle città francesi – soprattutto in Bretagna e in Normandia – nel 1944-45 dall'aviazione anglo-americana, gli Alleati, per estromettere le truppe tedesche, causando nel contempo la morte di decine e decine di migliaia di civili francesi, vittime di «danni collaterali».«Fortemente colpito, il paese ha ricevuto il 22% del tonnellaggio di bombe sganciate dagli Alleati sull'Europa durante la guerra. Spesso maldestre, queste operazioni non hanno mancato di colpire i civili e edifici che non avevano nulla a che fare gli obiettivi dichiarati. È l'intero territorio francese a essere interessato. Oltre alle città portuali di Lorient o Brest, ad esempio, basi dei sottomarini tedeschi il cui attacco intensivo era atteso, molti altri centri urbani importanti del paese hanno subito una grande violenza. È il destino di città come Nantes, Caen, Le Havre e Marsiglia, per citarne solo alcune. Molte piccole municipalità sono state fortemente colpite, talvolta quasi completamente distrutte. I bombardamenti strategici effettuati dagli Alleati sono stati quindi un evento fondamentale della Seconda guerra mondiale per la Francia. Tuttavia, l'argomento sembra generalmente ignorato»[2]. Se partissimo dal principio umanitario che un morto è un morto, un ferito è un ferito, indipendentemente da chi l'ha provocato, dalla sua legittimità o legalità, bisognerebbe guardare allo stesso modo i massacri di civili commessi dai bombardamenti degli Alleati sulle città tedesche, Dresda e Berlino in particolare. Infine, si deve dire che le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki non sono state il ricorso obbligato della guerra per piegare il nemico giapponese, ma un mostruoso massacro della popolazione nipponica – tra 100 e 200.000 morti in un solo evento – per seminare terrore e costringerla alla capitolazione, gli Stati Uniti hanno senza dubbio commesso l'atto terroristico più mortale della storia. Che dire, infine, delle centinaia di migliaia di morti sotto le bombe in Iraq, in Afghanistan, in Siria, per combattere i terroristi e portare la «democrazia» tra i «barbari»? È che tutti questi massacri di massa commessi da Stati e dalle loro armate, infinitamente più mortali di tutte le azioni di guerriglia dei combattenti resistenti, sono rimasti e rimarranno impuniti. Perché considerati – da questi stessi Stati – commessi in nome del diritto, della giustizia, della libertà. È inconcepibile incriminare e portare in giudizio dei «liberatori», come Churchill, Roosevelt, Truman, Bush, Blair, Obama, Sarkozy, Hollande. Mentre le prigioni di tutto il mondo sono piene di «terroristi» condannati a anni e anni di detenzione, o che aspettano un eventuale processo. È il caso in particolare di 6000 prigionieri politici rinchiusi nelle prigioni israeliane, ai quali si aggiungono 2500 altri palestinesi della Cisgiordania arrestati dal 7 ottobre scorso, a volte accusati di atti terroristici e più spesso incriminati di complicità o apologia del terrorismo. Per spaventare i resistenti, le loro famiglie e i loro amici, per impedire loro di continuare la lotta. Per imporre il silenzio e la sottomissione, il ricorso allo spettro del terrorismo appare la regola di tutti gli stati, siano essi definiti dittatoriali o democratici. Note [1] Cfr. il sito dell’AFP. [2] V. Bissonnette, « Une violence sous silence : le bombardement de la France par les Alliés », Cahiers d’histoire, vol. 36, numero 2, 2019, pp. 153–178. Alessandro Stella è stato membro di Potere operario e poi dell’Autonomia. Rifugiatosi in Francia all’inizio degli anni Ottanta, è oggi direttore di ricerca in Antropologia storica presso il CNRS e insegna all’EHESS di Parigi. Tra i suoi libri: La Révolte des Ciompi (1993); Histoires d’esclaves dans la péninsule ibérique (2000); Amours et désamours à Cadix.
- selfie da zemrude
Scoraggiare ogni iniziativa, ogni attività umana Paolini Marco Sommariva ci porta ad esplorare un Primo Levi sconosciuto, diverso dal suo romanzo più conosciuto Se questo è un uomo. Quando pubblicava sotto lo pseudonimo Damiano Malabaila raccontava di mondi distopici. Raccontava di noi. Lo scrittore torinese Primo Levi è molto conosciuto per alcuni suoi romanzi – Se questo è un uomo, La tregua, Se non ora, quando? – molto meno, purtroppo, per i suoi racconti: quindici di questi sono stati scritti nell’arco di vent’anni (1946-1966) e raccolti nel volume Storie naturali, pubblicato sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila, cognome che in piemontese significa «cattiva balia». In questi scritti si trova di tutto, anche l’anticipazione di un avvenire non sempre rasserenante. Mentre oggi ci troviamo a fare i conti con romanzi scritti dall’intelligenza artificiale, in questo libro Primo Levi già ci raccontava di poesie che sarebbero state prodotte, a breve, da un macchinario capace di scriverle in tutte le lingue europee vive o morte: «Se lei cerca un poeta meccanico vero e proprio, dovrà aspettare ancora qualche mese: è in fase di avanzata progettazione presso la nostra casa madre, a Fort Kiddiwanee, Oklahoma. Si chiamerà The Troubadour, <>: una macchina fantastica, un poeta meccanico heavy-duty, capace di comporre in tutte le lingue europee vive o morte, capace di poetare ininterrottamente per mille cartelle, da -100° a +200° centigradi, in qualunque clima, e perfino sott’acqua e nel vuoto spinto. […] È previsto il suo impiego nel progetto Apollo: sarà il primo a cantare le solitudini lunari». Mentre oggi qualcuno si sorprende nel leggere che è in atto un boom di richieste per l’ibernazione post-mortem, lo scrittore torinese ci raccontava di persone congelate e scongelate alla bisogna, in quel di Berlino nell’anno 2115: «[…] Patricia ha 163 anni, di cui 23 di vita normale, e 140 di ibernazione. Ma scusatemi, Ilse e Baldur, credevo che conosceste già questa storia. Scusatemi anche voi, Maria e Robert, se ripeto cose che già sapete: cercherò di mettere al corrente in breve questi cari ragazzi. Dunque dovete sapere che la tecnica dell’ibernazione fu messa a punto verso la metà del XX secolo, essenzialmente a scopo clinico e chirurgico. Ma solo nel 1970 si arrivò a congelamenti veramente innocui e indolori, e quindi adatti a conservare a lungo gli organismi superiori. Un sogno diveniva così realtà: appariva possibile «spedire» un uomo nel futuro. Ma a quale distanza nel futuro? Esistevano dei limiti? E a quale prezzo? Appunto per istituire un controllo a uso dei posteri, che saremmo poi noi, fu bandito nel 1975, qui a Berlino, un concorso per volontari. […] E Patricia è uno di questi […]. A quanto risulta dal suo libretto personale, che sta nel frigo con lei, è anzi stata la prima classificata. Possedeva tutti i requisiti, cuore, polmoni, reni ecc. in perfetto ordine; un sistema nervoso da pilota spaziale; un carattere imperturbabile e risoluto, una emotività limitata, e infine una buona cultura e intelligenza. Non che la cultura e l’intelligenza siano indispensabili per sopportare la ibernazione, ma, a parità di condizioni, furono preferiti soggetti di alto livello intellettuale, per evidenti ragioni di prestigio nei confronti nostri e dei nostri successori». E ancora… nel 2018 una rivista americana ha pubblicato un articolo intitolato «Anche se l’intelligenza artificiale potesse curare la solitudine dovrebbe farlo?», e la domanda nasceva dal fatto che già si riconosceva ai sistemi intelligenti la capacità potenziale di far compagnia alle persone, che già esistevano intelligenze artificiali capaci d’imparare dai comportamenti degli esseri umani e di adeguare le proprie risposte a quelle che l’utilizzatore preferisce. Bene, anche in questo caso, circa il sentirsi dare ragione da un circuito stampato, ne aveva già scritto Levi: «Ho già preparato una bozza del volantino pubblicitario che vorrei diffondere per le prossime feste […]. Una volta che la moda sia lanciata, chi non regalerà a sua moglie (o a suo marito) un Calometro tarato su una sua fotografia? Vedrà, saranno pochi a resistere alla lusinga del K 100: ricordi la strega di Biancaneve. A tutti piace sentirsi lodare e sentirsi dare ragione, anche se soltanto da uno specchio o da un circuito stampato». Per non parlare di come lo scrittore torinese sia stato capace di anticipare uno dei fenomeni più allarmanti dei nostri giorni, ossia la facilità di tarare l’uomo medio facendogli credere ciò che si vuole, compreso che un certo partito è il solo depositario della verità: «Ho insistito su quello che ritengo il fenomeno più allarmante della civiltà d’oggi, e cioè che anche l’uomo medio, oggi, si può tarare nei modi più incredibili: gli si può far credere che sono belli i mobili svedesi e i fiori di plastica, e solo quelli; gli individui biondi, alti e con gli occhi azzurri, e solo quelli; che è solo buono un certo dentifricio, solo abile un certo chirurgo, solo depositario della verità un certo partito […]». Fra le varie anticipazioni di Primo Levi c’è anche quella letta ultimamente sui giornali, la possibilità di confessarsi senza la reale presenza di un prete; oggi è l’intelligenza artificiale a entrare in un confessionale, così com’è successo a Lucerna dove un ologramma di Gesù consente ai fedeli di confessarsi virtualmente, in un racconto di Storie naturali è un confessore portatile approvato dalla Chiesa a risolvere il problema: «Mi aveva […] telefonato verso Ferragosto, per chiedermi se mi interessava un Turboconfessore: un modello portatile, rapido, assai richiesto in America e approvato dal cardinale Spellman». Infine, l’ennesimo colpo di genio: il casco da indossare per catapultarsi in qualsiasi realtà virtuale dove ogni desiderio verrà assecondato lasciandoti comodamente chiuso in camera tua. Leggete questo dialogo: «Col Torec, concluse Simpson, uno è a posto. Lei comprende: qualunque sensazione uno desideri procurarsi, non ha che da scegliere il nastro. Vuole fare una crociera alle Antille? O scalare il Cervino? O girare per un’ora intorno alla terra, con l’assenza di gravità e tutto? O essere il sergente Abel F. Cooper, e sterminare una banda di Vietcong? Ebbene, lei si chiude in camera, infila il casco, si rilassa e lascia fare a lui, al Torec». Rimasi in silenzio per qualche istante, mentre Simpson mi osservava attraverso gli occhiali con curiosità benevola. «Lei mi sembra perplesso,» disse poi. «Mi pare» risposi, «che questo Torec sia uno strumento definitivo. Uno strumento di sovversione, voglio dire: nessun’altra macchina della NATCA, anzi, nessuna macchina che mai sia stata inventata, racchiude in sé altrettanta minaccia per le nostre abitudini e per il nostro assetto sociale. Scoraggerà ogni iniziativa, anzi, ogni attività umana: sarà l’ultimo grande passo, dopo gli spettacoli di massa e le comunicazioni di massa. A casa nostra, per esempio, da quando abbiamo comperato il televisore, mio figlio gli sta davanti per ore, senza più giocare, abbacinato come le lepri dai fari delle auto. Io no, io vado via: però mi costa sforzo. Ma chi avrà la forza di volontà di sottrarsi a uno spettacolo Torec? Mi sembra assai più pericoloso di qualsiasi droga: chi lavorerebbe più? Chi si curerebbe ancora della famiglia?». A parer mio, Primo Levi aveva visto lontano: «scoraggerà ogni iniziativa», «[scoraggerà] ogni attività umana», «mi sembra assai più pericoloso di qualsiasi droga». Non conoscete nessuno affetto da una di queste tre «sindromi», se non addirittura da tutte e tre? E proprio perché di droga si tratta, è perduto chi ne fa uso e anche chi vorrebbe smettere di utilizzarla: «[…] Simpson non prova noia durante la fruizione, ma è oppresso da una noia vasta come il mare, pesante come il mondo, quando il nastro finisce: allora non gli resta che infilarne un altro. È passato dalle due ore quotidiane che si era prefisso, a cinque, poi a dieci, adesso a diciotto o venti: senza Torec sarebbe perduto, col Torec è perduto ugualmente. In sei mesi è invecchiato di vent’anni, è l’ombra di se stesso. […] S’avvia verso la morte, lo sa e non la teme: l’ha già sperimentata sei volte, in sei versioni diverse, registrate su sei dei nastri dalla fascia nera». Nel risvolto della prima edizione Einaudi del 1966 di Storie naturali, fra le altre cose, leggiamo che «I quindici “divertimenti” che compongono questo libro ci invitano a trasferirci in un futuro sempre più sospinto dalla molla frenetica del progresso tecnologico, e quindi teatro di esperimenti inquietanti o utopistici, in cui agiscono macchine straordinarie e imprevedibili. Eppure non è sufficiente classificare queste pagine sotto l’etichetta della fantascienza». Nella prefazione di Se questo è un uomo pubblicata nel ’47, Primo Levi ha scritto: «A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, […], allora, al termine della catena, sta il Lager». Cosa c’entrano adesso il risvolto del ’66 e la prefazione del ’47? Forse solo a dimostrare a certi agenti letterari sempre intenti ad appiattire ogni battito di penna, che non è vero che un autore debba scrivere sempre con identico stile e per lo stesso genere – «se scrivi gialli non puoi scrivere di Resistenza, e viceversa» – perché, sappiatelo, questo è quanto ci si sente dire negli uffici di tali signori, gli unici autorizzati a presentare un tuo dattiloscritto alle grandi case editrici. Diversamente, ce lo meritiamo che un’intelligenza artificiale ci sostituisca: è un attimo risultare più brillanti di determinati plot consolidati – pensa te! – e «suggeriti» da certi agenti letterari. E se fosse proprio il progresso tecnologico un’infezione latente che ogni tanto si manifesta e a cui spianiamo la strada? E se gli atti saltuari e incoordinati con cui ogni tanto si manifesta, fossero gli esperimenti inquietanti a cui il Potere ci sottopone quotidianamente? E se alla fine di tutto questo ci attendesse il lager? E se il Potere si fosse evoluto e affinato a tal punto da essere già riuscito a rinchiuderci in un lager senza che noi, distratti da una realtà virtuale e ammansiti da un circuito stampato che ci dà sempre ragione, ce ne rendessimo conto? Di un’altra interessante raccolta di racconti di Primo Levi, Vizio di forma, ve ne parlerò un’altra volta. Marco Sommariva (Genova 1963) è autore di numerosi romanzi e testi di critica letteraria. www.marcosommariva.com
- archivi
La rivista DeriveApprodi [2] Vent’anni dopo la nascita della rivista, alcuni di coloro che contribuirono ad animarla scrissero di quella loro esperienza. Ne diamo conto di seguito al testo dell’editoriale. Una rivista di «vela» Mauro Trotta È possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli stia emergendo una nuova percezione del presente». Queste parole erano scritte sulla copertina del numero Zero della rivista «DeriveApprodi». Era il 1992 e in effetti stavano accadendo tante cose. In Italia crollava la Prima Repubblica e un movimento di lotta si affermava di nuovo nelle università con la Pantera. Fuori, era caduto il Muro di Berlino e, con esso, il cosiddetto «socialismo reale», iniziavano le guerre in Jugoslavia, c’era stata la prima guerra in Iraq, si discettava sul Nuovo ordine mondiale che si andava formando. C’era qualcuno che addirittura teorizzava la fine della Storia. E poi, erano finiti gli anni Ottanta, «gli anni di merda» come li definì Nanni Balestrini in una poesia letta in occasione della prima presentazione della rivista e pubblicata sul numero 1. «DeriveApprodi» è nata allora da un incontro: qualche tempo prima avevo conosciuto Sergio Bianchi che si era appena trasferito a Roma. Ci trovammo subito in sintonia, diventando amici veri, fratelli praticamente. Insieme entrammo a far parte di «Luogo comune», una splendida rivista, realizzata da un gruppo redazionale molto coeso, capace davvero di gettare uno sguardo lucido e critico sugli argomenti e i temi trattati. Ci si riuniva per discutere del numero in cantiere, tutti leggevano ogni contributo, ogni articolo, si decideva collettivamente. Tutto questo, però, aveva un prezzo: la periodicità. Non si riusciva a uscire in libreria con scadenze più o meno regolari.Con Sergio pensammo di metter su qualcosa di diverso. Una rivista di pensiero critico che però non nascesse dal lavoro di una redazione strutturata, ma rappresentasse, come scrivemmo nel primo editoriale «un punto di incontro di alcune derive esistenziali e di alcuni percorsi di ricerca, un contributo affinché nuove scoperte maturino, altre avventure comincino». Una rivista aperta a contributi differenti, di cui saremmo stati responsabili Sergio e io. Una rivista naturalmente autoprodotta – grazie agli abbonamenti preventivi che sottoscrissero parenti e amici e grazie al grande aiuto in questo senso, e non solo, dei compagni di Tradate – che sarebbe uscita tre quattro volte all’anno. Con un altro amico e compagno, che ora purtroppo non c’è più, Paolo Minervini, eravamo i proprietari della testata.Iniziò così il percorso di «DeriveApprodi», che vide coinvolti già nella preparazione del numero 0 tanti amici e compagni. Da Nanni Balestrini, che ci aiutò anche a correggere le bozze di quel numero, a Bifo, da Primo Moroni ai compagni di «Luogo Comune» (Paolo Virno, Giorgio Agamben, Lucio Castellano, Benedetto Vecchi, Lanfranco Caminiti, Andrea Colombo, Marco Bascetta ecc.), a molti altri ancora. Discutemmo del nostro progetto, ricevemmo aiuti, suggerimenti, contributi. Il progetto iniziava a prendere forma.Sergio, che trovò anche il nome DeriveApprodi, e io individuammo i temi generali di cui si sarebbe dovuta occupare la rivista: le trasformazioni nella struttura del lavoro, l’emergere di nuovi soggetti legati alla produzione immateriale, crisi della sovranità e della rappresentanza, la centralità della comunicazione e dell’informazione.Volevamo che anche l’aspetto grafico di «DeriveApprodi» fosse fortemente innovativo e, da questo punto di vista, fu decisivo il contributo di un formidabile grafico che si unì all’impresa: Massimo Kunstler, il quale disegnò la testata, creò le gabbie, realizzò le copertine, insieme a noi (in genere di notte) impaginò la rivista. Trovammo poi la tipografia grazie a Giorgino Boldrin, il distributore (Joo) e un amico giornalista che assumesse la direzione, Antonello Grassi. Così, vent’anni fa partiva l’avventura di «DeriveApprodi», che nel corso degli anni avrebbe vissuto cambiamenti e trasformazioni, sarebbe diventata casa editrice, avrebbe coinvolto tanti altri, a iniziare da Ilaria Bussoni, vera colonna portante sia della rivista (fin quando è uscita) sia della casa editrice. E oggi quella rivista, che fu scambiata da un libraio a cui portai delle copie per un giornale di vela, celebra il ventennale. E il fatto strano è che gran parte dei testi pubblicati nei suoi venticinque numeri mi sembrano ancora attuali. Così come quella frase stampata sulla copertina del numero Zero. Forse, ancora una volta «è possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli stia emergendo una nuova percezione del presente». Instabile/possibile Rossana De Simone Alla fine degli anni Ottanta Varese aveva seppellito un ciclo storico iniziato con l’insurrezione delle classi operaie provocate dall’avvento del fascismo, «la città giardino», che Benito Mussolini aveva elevato a capoluogo di provincia con l’ambizione di «italianizzare» il Canton Ticino, era passata dal fascismo al razzismo della Lega. «Abbasso lo Stato e viva l’individuo sociale e il privato» gridava Bossi, tutto poteva essere usato come grimaldello per scardinare il sistema, bisognava legittimarsi e delegittimare perché solo «quando tutti i meccanismi saranno sfasati si dovranno prendere decisioni» avvertiva Miglio.Varese è una città che aveva visto uccidere focolai di socializzazione sovversiva e una volta rimasta senza più un residuo di socialità urbana era tornata a cullarsi nella cultura del narcisismo. Una cultura che pensava di trovare le sue radici nell’ordine della sua piazza principale, piazza Monte Grappa, dove l’architettura fascista ha lasciato un fortissimo segno. Gli anni Novanta cominciavano qui come altrove con lo spazio pubblico interamente occupato dagli organi dei media e della comunicazione, capaci di penetrare stati d’animo che riflettevano l’esaltazione dell’individualismo e della proprietà privata con la diffusione di micro-imprese decentrate dalle medie e grandi fabbriche. È in questo periodo di fuga dell’individuo dal sociale e di disillusioni collettive, che eventi come il crollo del Muro di Berlino, piazza Tien An Men in Cina e il movimento della Pantera nelle università italiane, facevano presupporre che si poteva e doveva voltare pagina, ed è in questa atmosfera che la rivista «DeriveApprodi» mi arriva fra le mani. Un incontro felice non solo perché come si leggeva nella copertina del numero zero era «possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli stia emergendo una nuova percezione del presente», ma perché il tempo tornava a suscitare emozioni, la voglia di nuove relazioni affettive e, prima ancora che un sentire comune, un agire comune, rispondeva alla necessità di intercettare nuovi linguaggi che incorporavano l’aspetto immateriale della produzione. Da questo punto di vista «DeriveApprodi» dava voce a interpretazioni diverse provenienti dal corpo sociale produttivo che sperimentava e alimentava l’economia della conoscenza attraverso dinamiche centrifughe e centripete, movimentando il territorio urbano non come ferraglia pensante ma come insubordinati capaci di una autonoma produzione del comune. Elementi chiave di un nuovo progetto costituente non potevano che essere gli intellettuali francesi Deleuze-Guattari. Foucault da coniugare con il pensiero post-coloniale e la riscoperta di Frantz Fanon. Ma poi come non riconoscere che solo il partire da sé del pensiero femminista potesse captare i mutamenti nella percezione del corpo, la sua indisponibilità all’identità unitaria, i tentativi di assoggettamento da parte delle relazioni di potere? Non ancora risolto il problema del rapporto capitale-lavoro e/o capitale-vita risultato della finanziarizzazione dell’economia, che già le frontiere indebolite dallo sgretolamento degli Stati, imponevano l’argomento dello spettacolo mediatico del naufragio, delle migrazioni vissute troppo spesso come avvelenamento di una convivenza sociale già distrutta dalla frammentazione.Viceversa era necessario ci fosse un approdo al naufragio possibile di tutti poiché è la vita di ognuno a rischio di instabilità. Quell’instabilità che provocava le rivolte nei quartieri urbani di grandi metropoli, espresse con violenza da giovani che si rifiutavano di riprodurre il modello di genitori supersfruttati e maltrattati, rivolte che poco si conciliavano con quelle degli intermittenti precari, dell’intellettualità collettiva esposta come altre alla crisi di un sistema in via di decomposizione. Sarà la nuova guerra al terrorismo a svelare la simbiosi tra multinazionali e politici statunitensi, a far emergere i retroscena della deregulation e del sistema dei fondi pensione di quella «nuova economia» degli anni Novanta che si era presentata come la più democratica ma che aveva preso in ostaggio i lavoratori e le loro pensioni. Quando il potere diviene immateriale la rete, sistema nervoso attraverso il quale circola l’informazione, diventa modello organizzativo, ma quando la capacità di dissuasione del potere, e il modello di diplomazia coercitiva mostra la sua inefficacia, arriva il ricorso della forza come accaduto in Iraq o a Genova. I numeri della rivista sui movimenti d’Europa e negli Stati Uniti, Canada e Australia sono piccoli capolavori. Freddi, forse un po’ troppo fitti, ma esuberanti. Quell’esuberanza che si stempera nella malinconia dell’ultimo numero, quello della fine. La malinconia è una passione che rimane costantemente incostante, creatrice perché capace di trasformarsi, di divenire altro. Il tempo, è certo, ha subito una accelerazione. Personalmente ho salutato con simpatia e un sospiro di sollievo la svolta effettuata dalla casa editrice che aveva deciso, più o meno con l’accordo da parte di tutti coloro che la arricchivano, di cessare l’uscita periodica della rivista. Un diverso approccio ai movimenti era cominciato, più riflessivo, di ricongiunzione della memoria che solo i libri possono offrire, senza dimenticare che il tempo, appunto, impone nuove sfide. Ma con quel coso lì che robe si possono fare? Massimo Kunstler Mi vedevo spesso con Sergio, abitavamo talmente vicino che a piedi ci voleva un minuto. Avevo già sentito parlare di lui, ma ci siamo incontrati solo per caso verso la fine degli anni ’80. Sergio condivideva un appartamento con dei miei carissimi amici a Roma. Era il tipo di persona che mancava da tanto nel mio allora esagerato giro di conoscenze, fatto di esagerate frequentazioni e pochi veri amici. Dopo oltre un decennio avevo ritrovato qualcuno con cui poter comunicare, ed essere accettato, per il visionario che ero, al di fuori dei canoni dell’allora imperante edonismo reaganiano, detto tanto per intenderci.Avevo trovato un compagno di merende – forse più di apertivi e cucina. Si parlava con il buon Sergio. Parlavamo in continuazione. Non di ricordi e vecchi tempi, ma di cosa fare. Ora. Passava spesso a trovarmi a fine giornata. A volte mi trovava ancora affaccendato sul mio Mac. Guardava, annusava, pensava. Poi, stappata una bottiglia di buon vino, si decideva il menu della serata e si cominciava a parlare mentre si cucinava. Nel corso del tempo, a tante merende, aperitivi, cene e ottime bottiglie di rosso – quasi sempre rosso, perché le cene erano belle corpose – e tantissime parole, chiacchiere e conversazioni seguirono altrettante merende, aperitivi e cene con parole, chiacchiere e conversazioni, ma vini anche bianchi.Intanto il Bianchi (Sergio) continuava a guardare il mio Mac, annusando e pensando. Fino a quando, una sera, smette di guardare il Mac e guarda me… Ascolta… – dice – ma con quel coso lì che robe si possono fare? Avevo già capito tutto da un bel po’, sapevo dove andava a parare. Di lì a poco uscì il numero zero di DeriveApprodi, della cui veste grafica, Sergio e il sottoscritto, siamo certamente gli unici irresponsabili. Ben scavato vecchia talpa! Franco Berardi (Bifo) Cominciammo a pubblicare questa rivista all’inizio degli anni Novanta per riprendere il filo di una ricerca che nel decennio precedente si era ingarbugliato e perso nelle carceri speciali in cui il potere aveva rinchiuso centinaia di intellettuali. Volevamo riprendere il filo della ricerca autonoma: autonomia della società dal capitale, autonomia del sapere dalla legge del profitto, autonomia della mente e del cuore dall’economia. Gli anni Novanta sono stati un decennio di straordinaria intensità. Crollato il regime statalista autoritario che aveva abusato del nome di comunismo, l’evoluzione del capitalismo conobbe una svolta straordinaria, che prese nome di globalizzazione. L’intelligenza tecno scientifica, sposata alla creatività e sospinta da intensi flussi di capitale dedicati alla ricerca, dispiegò le tecnologie di teletrasmissione simultanea dell’informazione digitale. Questo rese possibile una nuova forma di sfruttamento deterritorializzato del lavoro, e permise di allargare enormemente il mercato del lavoro, togliendo forza di contrattazione al lavoro operaio occidentale. Un arricchimento straordinario e un impoverimento senza precedenti furono resi possibili, nel tempo, da questa nuova condizione. La conoscenza ampliata senza più limiti spaziali, da una parte. Il lavoro precarizzato, frammentato, ridotto in servitù, dall’altra parte. Il pensiero sociale si trovò di fronte a una situazione difficile da interpretare secondo le categorie ereditate dal ventesimo secolo. Occorreva qualcuno che cercasse di collocarsi a questo livello. DeriveApprodi nacque per provarci.Rifiutammo di farci nostalgici difensori della composizione sociale del passato, e delle sue forme di identità e di ideologia. Rifiutammo la nostalgia del comunismo storico. Ma nel far questo ci guardammo bene dal credere nelle illusioni della new economy, che prometteva un’espansione infinta sul piano economico e una nuova felicità nella competizione generalizzata. Cominciammo a studiare le forme emergenti della precarietà e del lavoro cognitivo in rete. Cercammo di affrontare la questione migrante dal punto di vista delle culture post-coloniali e dal punto di vista della composizione del lavoro. La rivista ebbe fin dall’inizio un pubblico per lo più giovane, intelligente, smaliziato. Il pubblico che veniva fuori dal movimento della Pantera, che nel 1990 aveva posto con chiarezza preveggente il problema dell’autonomia della ricerca, e aveva individuato la tendenza pericolosa della politica (di destra e di sinistra) a considerare il campo della conoscenza e della ricerca come un campo riducibile al mercato, alla competizione economica, alla crescita infinita. La rivista non si lasciò catturare dalla nostalgia degli anni Settanta, ma non accettò il cinismo che dominava nella chiacchiera intellettuale. E alla fine incontrò il movimento che dava forma soggettiva di massa alle intuizioni complesse che avevamo cercato di elaborare. Quando esplose l’insurrezione di Seattle, nel novembre del 1999, ci venne voglia di dire: ben scavato vecchia talpa!Il movimento cosiddetto no global, che in realtà era un movimento di critica e trasformazione interna alle forme della globalità culturale e tecnica, tentò di rendere possibile una via d’uscita progressiva, egualitaria, umana, dall’agonia del moderno. Quel movimento riuscì a diffondere una consapevolezza ampia del carattere non naturale, non inevitabile del capitalismo, e riuscì perfino a far comprendere che la globalità della rete poteva funzionare come fattore di liberazione e di autorganizzazione autonoma della ricerca. Ma non riuscì a consolidare quella consapevolezza in istituzioni del sapere e dell’agire solidale, perché la guerra ripiombò sul mondo, dopo l’11 settembre del 2001, e iniziò il processo di smantellamento e sottomissione dell’intelletto generale. Da meno vecchi a più giovani Pino Tripodi Quando vent’anni fa nasce DeriveApprodi eravamo anagraficamente meno vecchi. Convivevano più nidiate sovversive in quell’avventura. I ventenni con le unghie già graffianti del movimento della Pantera, i trentacinquenni sempre più autonomi del movimento 77 e qualche decano delle storie precedenti. Convivevano tutti nel pentolone messo assieme per forza ciclopica dalla cocciuta volontà del Bianchi recalcitrando non poco, però. Ché pochi esclusi – il Sergio, l’io, il Bifo… – avevano doppia tessera in tasca. Quella tosta dell’identità – il simulacro di un’antica forma partito, l’icona di un qualche collettivo politico o centro sociale, la parentela stretta con qualche sparuta micro organizzazione – e quella spuria di DeriveApprodi, una specie di amante disinibita tenuta come carta jolly per fare le porcate che in famiglia non è lecito fare.Con le armate di volta in volta cangianti, si confezionava la rivista (e poi i libri della casa editrice, nelle intenzioni e fors’anche nella realtà una rivista all’ennesima potenza) DeriveApprodi, la più importante assemblea di Movimento prodotta in Italia negli ultimi vent’anni.Chi volesse conoscere le posizioni di una delle tante anime del Movimento italiano può rivolgersi alla relativa parrocchia – se per pura sventura sopravvive ancora; chi invece desiderasse cogliere con uno sguardo il panorama di tutto il Movimento e seguirne le storie, le relazioni, le differenze ontologiche come quelle di lana caprina non può che rivolgersi a DeriveApprodi. Ghigno della storia: DeriveApprodi, per quel carattere di contenitore-assemblea che l’ha contraddistinta, è sempre stata accusata di confusione mentre appare oggi come un elemento di chiarezza. Come ogni assemblea, DeriveApprodi è stata contemporaneamente rappresentazione – ovvero petulante litania delle posizioni, delle identità e delle rappresentanze costituite – ed espressione, ovvero puntellato universo mai sintetizzabile di teoria politica, di discorsività, di pratica sociale. Nel suo nome, DeriveApprodi ha indicata la sua programmatica e sublime condanna: luogo di derive, impossibile e inconosciuto luogo di approdo. Sbrindellato ma preciso e ben orientato legno di naufragio, festoso e desiderante, per tutte le derive singolari e collettive dei movimenti che furono, e assenza genetica e congenita di ogni possibile approdo. Ai movimenti è dato solo di naufragare, sempre, ai suoi becchini – le organizzazioni – può esser dato di approdare, solo. Sull’antagonismo tra movimenti e organizzazioni, sull’insopportabilità di ogni aspetto identitario, sul bigottismo coglione di ogni appartenenza si è costruita l’etica e l’estetica di DeriveApprodi. I pezzi migliori della collezione DeriveApprodi sono infatti quelli da cui emerge ciò, non a caso i medesimi nei quali si dà un cortese vaffa alla zavorra – e alle medaglie – del nostro passato. DeriveApprodi è stata una freccia bidirezionale con il cuore – grande, troppo grande – rivolto al passato e la mente – piccola, troppo piccola come lo è sempre la nostra mente – rivolta al futuro. Vent’anni dopo si assiepano alle nostre porte nuovi ventenni che ci chiedono del passato. È un indizio preciso che i loro movimenti non avranno futuro.Vent’anni dopo si assiepano alle nostre porte nuovi ventenni che ci chiedono del passato. È un indizio preciso che i loro movimenti non avranno futuro. Vent’anni dopo molti di noi hanno superato l’età oltre la quale è una vergogna vivere. Come noi ci siamo lanciati in una ribellione totale verso le sragioni del nostro tempo, così oggi i nostri corpi si vendicano di noi con le medesime modalità di quel giudice che accoglieva nel suo ufficio inquisitorio gli autonomi con il manifesto dell’Autonomia su cui era scritto: Pagherete caro, Pagherete tutto. A questa età rivolgere la mente al proprio passato è un’idiozia su cui possono allignare solo rancore, nostalgia, boria, altri sentimenti tipici di reduci e combattenti. L’unica possibilità per sopportare la vergogna del vivere è quella indicata da Andrea Pazienza che spero di citare con buona memoria: “Chi aveva vent’anni nel 77 ne ha diciotto vent’anni dopo”. Vent’anni fa eravamo meno vecchi, ora siamo più giovani. Non diamo vanto al progressivo rincoglionimento dei corpi – e del passato – siamo legno – sempre più marginale e sempre più discreto – per continuare a naufragare in un mondo nel quale tutti gli approdi che abbiamo conosciuto – paradigmi e organizzazioni, stati e sistemi di rappresentanza – dopo il trionfo dei decenni scorsi, vanno implodendo seppelliti – ironia della storia – non, come avremmo voluto, dalla forza dei movimenti ma dalla propria inconsistenza e miseria. Quando uscì il numero 25, l’ultimo di DeriveApprodi, la prima di copertina aveva una grande x come a dire: basta, chiuso, è finita un’epoca. Oltre il lutto, nella quarta di copertina, mister White pose, dopo averci spaccato i maroni per anni, la festa, ovvero il programma politico del divenire che recitava: freccia tenda cammello. In quel deserto in cui il lutto e la festa si impastavano senza riuscire a coniugarsi provai a scrivere Diario del domani sul potere destituente.Anni dopo non so se c’è ancora qualche freccia nel nostro arco, di certo continuiamo a pensare – un po’ con ironia, un po’ con trattenuta rabbia – cose forse troppo stravaganti o forse troppo folli, cose obbiettivamente fuori dal tempo come cani che abbaiano alla luna non perché attendano dalla luna una conferma. Solo perché avendo scelto di non guidare mandrie, né di star dietro a qualche fottuto carro, la solitudine del cane ci tocca come ci tocca la luna che sola come noi, fa flebile luce ma ci riscalda tanto i cuori. Codici miniati e prediche ai passeri Lanfranco Caminiti Vent’anni fa stavamo attraversando il deserto. Non eravamo diretti verso la terra promessa, quella, semmai, era alle nostre spalle. Il deserto era tutt’intorno a noi, era abitato, sovrappopolato. Una civiltà era andata distrutta, una nuova specie umana emergeva dalle sue rovine, ma noi non riuscivamo a riconoscerne i volti, i corpi: tutto levigato, senza tracce né memoria. Solo noi eravamo pieni di cicatrici. Ma non ci eravamo salvati, eravamo i sommersi. Era successo troppo.Gli anni Ottanta erano stati l’apoteosi delle ideologie liberiste: il thatcherismo e il reaganismo avevano trionfato. In breve: la società non esiste, ci sono solo gli individui; i ricchi sono l’élite sociale e quelli che trainano, spendono e investono, e non vanno certo penalizzati, tassati, ma lasciati liberi di muoversi senza regole, lacci e lacciuoli; la collettività, lo Stato non può farsi carico di chi rimane indietro, ci penserà il mercato, e la disoccupazione e la povertà sono comunque endemiche; ci saranno opportunità e possibilità di arricchimento per tutti, se riusciamo a toglierci di dosso l’eredità di diritti e normative sul lavoro che pesano parassitariamente sulla mobilità del capitale e quindi sullo sviluppo. Questo era successo negli anni Ottanta, gli anni del ritorno dell’ideologia come arma letale, arma di distruzione di massa. L’occidente non può mettere ordine nel mondo, se non mette ordine in casa propria. E il socialismo aveva dimostrato il suo fallimento in termini di utilità e razionalità: aveva preteso di offrire più sicurezze e meno sperperi, invece non funzionava, nonostante un’oppressione bestiale. Aveva dimostrato anche la sua irriformabilità; era condannato a ripetersi sempre uguale (disfunzionalità e oppressione: le disfunzionalità erano sempre colpa di un qualche permissivismo che andava spazzato via). Non c’erano alternative, solo il default. Il 1989 era stato il default del comunismo reale: a Mosca come a Pechino. Un default insanguinato. Ora scoppiavano le crisi a catena dentro il suo mondo, la Jugoslavia, anzitutto, la Cecenia, la Georgia. Una doppia crisi – quella dello sviluppo e quella del progresso –, scoppiata negli anni Settanta e che investe contemporaneamente il capitalismo e il socialismo, cerca una risposta nell’azzeramento della storia. La storia finiva perché ricominciava all’indietro.Insomma, era stato il tempo delle nuove e vecchie geo-ideologie: l’occidente era tornato ai fondamentali del mercato, l’utile, l’interesse individuale; e, prendeva consistenza, si espandeva l’ideologia della religione come guida politica, dopo la rivoluzione khomeinista: l’islam riscopriva il Corano – e le sue versioni – come interpretazione politica del mondo, come nuova soggettività storica. La Cina, come il Brasile, come l’India, possono profittare di questa crisi.Quella che era rimasta stritolata era l’ideologia sociale, il comunismo, la geo-ideologia dell’est europeo e asiatico, del Terzo mondo, dei paesi emergenti. Qui la storia finiva in un vicolo cieco.Gli anni Novanta si trovano in questo passaggio. Ed è qui che prende corpo il clintonismo. Il clintonismo non c’entra niente con l’esperienza europea della socialdemocrazia, del riformismo laburista: questi dovevano far fronte all’incombenza del socialismo, quello sta dentro la crisi del capitalismo.Il clintonismo (e Blair, Prodi, Schroeder, fino a Zapatero) è l’idea di poter governare il passaggio, di poter pragmaticamente fare fronte a quella crisi degli anni Settanta, la crisi del capitale: scarsa produzione, scarsa occupazione. E di poter acconciare in modo meno traumatico la svolta liberista. Il clintonismo è speculare alla svolta cinese, l’idea di poter accomodare la fine del socialismo in modo meno traumatico da quello sovietico. Era questo il deserto. Alla fine degli anni Ottanta, ci ritroviamo nel deserto delle idee in occidente.Nella teorizzazione della fine delle idee. Il conflitto si sposta dal lavoro (che ha subìto la più grande ristrutturazione dall’introduzione ottocentesca delle macchine) e diventa questione marginale: la riduzione del lavoro diventa riduzione della sua soggettività politica; un andamento ciclico. Mentre l’attenzione torna tutta sulla geo-politica, sulla forza, sulla guerra e sulla pace. Anche il capitale si sposta dal conflitto – non solo con il lavoro ma anche con le nuove tecnologie – arrivando sulla finanza. La finanza è ancora appartata, poco visibile. Ma è qui che si gioca la globalizzazione. È qui, e non sulla mobilità delle merci o del lavoro – che già c’erano state nella commercializzazione mondiale dell’impero britannico e nelle nazioni-impero – la differenza sostanziale.Il pensiero politico italiano è il più attrezzato di tutti. Dicono dipenda da una lunga tradizione. Io credo piuttosto dipenda solo dalla straordinaria contingenza degli anni Settanta. Come Lenin riuscì a trasformare un paese industrialmente arretrato – dove mai avrebbe dovuto esserci l’affermazione del proletariato industriale – nell’officina del bolscevismo, nel posto più avanzato della sperimentazione sociale di un ordine nuovo, così l’onda lunga del biennio ’68-69, fino al Settantasette, aveva trasformato il paese più cattolico del mondo nel posto della legislazione più avanzata in termini di divorzio e aborto, e di una tolleranza culturale e sessuale inimmaginabile altrove, il paese con il più forte partito comunista occidentale nel posto dove la critica ai suoi princìpi, ai suoi riferimenti, alle sue politiche era di massa ed era libertaria non reazionaria, il paese più malfermo nei fondamentali dell’economia e dove la distribuzione della ricchezza era ancora ferma al latifondo nel posto del benessere più diffuso ed equo.La dolce vita italiana era iniziata negli anni Settanta, quell’altra era una manfrina per pochi. Ora, nel deserto c’era rimasto solo il pensiero politico. A iosa, strabordante, eccedente. Ma sommerso. Che succede quando hai un patrimonio teorico enorme ma non il tempo storico? Ti chiudi in convento e lo conservi. Ne fai codici, digesti, pandette. Metti i monaci a lavorarci sopra, a arricchire il lascito con miniature e mappe e disegni.Che succede quando hai una religione ma non i fedeli? Predichi ai passeri, sperando che un giorno acquisiscano la parola.Questo erano le riviste degli anni Novanta. Questo era «Derive Approdi», come le altre. Codici miniati e prediche ai passeri. Pochi altri ferventi monaci arrivavano, pronti a perpetuare il lavoro, ma le chiese restavano vuote.Ci si passava l’un l’altro le profezie, come fossero terzine di Nostradamus capaci di indovinare gli accaduti. Era così. Tra le oscure righe, la profezia era chiarissima. Ma restava una pratica di iniziati. Di illuminati. Di massoni. Poi gli anni Novanta finirono.E finirono con Seattle. I passeri arrivavano in stormo e facevano un gran baccano.